Nella ribollente ed eterogenea scena musicale italiana degli anni ’70, l’Albergo Intergalattico Spaziale rappresenta un’esperienza peculiare. Il gruppo prende vita nel 1974 attorno all’omonimo locale in via Garibaldi 56, nel cuore di Trastevere, gestito dalla cantante, danzatrice e performer Edda “Terra” Di Benedetto insieme all’ex dei Giganti Mino Di Martino. Il luogo era un crocevia di sperimentazione creativa frequentato da gente come Franco Battiato, Claudio Rocchi e da una variegata élite di artisti, registi underground, maestri yoga, pittori surrealisti e compositori minimalisti.
«Era un momento di vibrazioni altissime, ma anche caotiche», dice oggi Terra, «un periodo intenso, vissuto profondamente. La gente partecipava con un coinvolgimento autentico. Forse c’era un’influenza astrologica: Nettuno era presente nel cielo in quel periodo, simbolo di metamorfosi. Non era il solo, certo, ma la sua energia era forte. C’erano i nettuniani, e Battiato era uno di loro. Aveva una configurazione importante, con il Sole opposto a Nettuno. Io ho la stessa opposizione, ma disposta diversamente. È una configurazione che porta al cambiamento continuo, a una visione che può essere difficile da sostenere: ti trovi dentro il flusso perennemente mutante e devi cogliere i punti di creazione e di morte».
In questo contesto, Terra Di Benedetto e Mino Di Martino danno vita al progetto che prende il nome del locale, tra Kosmische Musik, psichedelia, dream pop ante litteram, sperimentazione e un forte messaggio antinucleare, all’epoca molto sentito. L’album dell’Albergo Intergalattico Spaziale, registrato nel 1976, avrebbe dovuto essere pubblicato dalla EMI ma, dopo varie traversie, è uscito nel 1978 autoprodotto. Nel frattempo i due non stanno con le mani in mano, ma contribuiscono a una delle esperienze più interessanti nell’ambito sperimentale italiano: il Telaio Magnetico, con Franco Battiato, Vincenzo Zitello, Roberto Mazza, Juri Camisasca e Lino “Capra” Vaccina. Di questa esperienza rimane solo, purtroppo, un album dal vivo, Live 75.
Dopo avere fatto percorsi separati, Di Martino e Di Benedetto sono tornati a dar vita all’Albergo con album come Angeli di solitudine (2009), che include collaborazioni con Franco Battiato e Giusto Pio, Alchimia del Verbo (2004), e Cammino sotto il mare (2011).
Inaspettatamente, è uscito in questo inizio di 2025 Navicomete, il nuovo doppio LP (la cui edizione limitata in 300 copie da collezione è curata da Psych-Out Records) firmato Terra di Benedetto/Albergo Intergalattico, con un largo ensemble di ospiti e la supervisione musicale di Mino Di Martino. Definito dall’autrice «una suite di poesia sonora in quattro parti e dieci movimenti», l’album è il frutto di oltre cinque anni di gestazione e registrazione.
Navicomete è un’uscita tanto inaspettata quanto gradita. Nell’epoca che stiamo vivendo musiche come le vostre sono un bel balsamo per l’anima. Cosa ti ha spinto a questo ritorno?
Tutto è iniziato con una visione che ha scatenato una ricerca. Una ricerca, inizialmente, più teatrale che musicale. Discutevamo con Mino su quanto la morte fosse tabù nella nostra cultura, concentrata solo sulla giovinezza. Questo ci ha spinti a una ricerca profonda, sia storiografica che antropologica, su vari popoli. Il bardo tibetano è stato il mio punto di riferimento durante tutto questo percorso. Comprenderlo non è semplice, richiede esperienza, richiede di comprendere la vita stessa. In fondo, questo album è un sogno che si trasforma in un viaggio post mortem. Un percorso che porta a isole immaginarie, dove tutto è sospeso in un’armonia archetipica. In queste isole, la metamorfosi si arresta e rimane solo l’essenza.
Le quattro suite sono un percorso tra dimensioni oniriche e mistiche, tra musica, poesia e canto. Con testi in inglese, italiano, latino, albanese e portoghese. Tanti elementi in un’opera dal respiro quasi astrale, a ricordare il mitico Zeit. Il tutto è reso in maniera molto fluida e comunicativa, grazie a diversi spunti melodici. Come ci siete riusciti?
Ho sviluppato delle tracce utilizzando il mio DX21 e il pianoforte, creando quelle che definisco canzoncine dell’anima. Ovvero melodie interiori ancestrali e archetipiche. Però anche orecchiabili, semplici e genuine su cui ho lavorato intensamente e che poi hanno trovato posto nel flusso sonoro organizzato da Mino, con il coinvolgimento degli ospiti. Alla fine io vedo tutto come una grande regia. Vengo dal teatro, e per me ogni musicista è come un attore sul palco: ognuno ha le sue battute e quelle battute devono essere rispettate. Tutto deve rientrare nell’armonia del disegno complessivo.

Foto: Rä di Martino
Prendendo spunto dal tema post mortem su cui è incentrato il disco, volevo chiederti un pensiero sugli ultimi anni di Battiato.
Siamo rimasti tutti stupiti dalla sua malattia improvvisa e da quello che è successo. L’ultima volta che ho visto Franco è stato nel 2016. Non lo vedevo bene. Aveva ripreso il tour con Alice dopo la caduta, e sicuramente era un uomo forte, ma qualcosa era cambiato. Ricordo che eravamo seduti in poltrona, circondati da persone. Anche a cena, la folla intorno a lui era immensa. E l’unica vibrazione che ho percepito in quel momento è stata il suo distacco. Gli unici istanti in cui ho ritrovato il Franco di sempre sono stati durante il concerto. Quando la gente ha iniziato a cantare con lui, alla fine non era più lui a cantare, ma la platea intera, un coro unico. In quel momento, è sembrato riprendersi, riacquistare colore. Poi Mino è andato a trovarlo con nostra figlia, Rä di Martino. E mi hanno raccontato un episodio curioso: Franco era lucido e parlava di una persona, non ti dirò chi. Quando questa è entrata, lui è cambiato, sembrava non capire più nulla. Mino se la rideva sotto i baffi, perché aveva colto subito la situazione. Franco non voleva interagire con quella persona, lo si intuiva benissimo. Per il resto, non so cosa dire. Ho visto Franco qualche volta in televisione, in trasmissioni come Otto e mezzo, in una puntata con Marco Travaglio, e mi è sembrato molto reticente, quasi distratto. Sembrava che non capisse, ma non era un far finta: era un distanziarsi. Se avesse potuto, avrebbe deviato la conversazione, ma lì non era possibile. Era annoiato, probabilmente perché si stavano sfiorando dimensioni che ormai gli erano estranee.
Come lo hai conosciuto?
Una mattina è arrivato a casa mia e di Mino. Ha suonato alla porta e quando abbiamo aperto ci ha dato una cassetta. Dentro c’era la canzone che diceva “Padre, fammi partire”. Non ricordo con certezza il titolo (Da Oriente a Occidente, nda), ma so che l’aveva composta durante la notte. E le cose, appena nascono, hanno sempre un sapore diverso. Un’energia che poi, in qualche modo, si perde nelle successive elaborazioni. Durante tutta l’esecuzione, Franco non ha mai tolto gli occhi di dosso da Mino. Per lui era importante. Lo guardava fisso, attento a cogliere ogni più piccola reazione. Alla fine Mino ha detto una sola parola: «Bello!». A Franco bastava, perché Mino era di poche parole, ma si vedeva subito che il pezzo gli era piaciuto. Così se ne è andato via soddisfatto.
Con lui avete condiviso quell’esperienza straordinaria che è stato il Telaio Magnetico.
Dopo esserci conosciuti meglio, con Franco abbiamo deciso di fare un viaggio ad Avignone. Lui era interessato a un festival che si teneva lì. Con noi c’erano anche Juri Camisasca e altri. A un certo punto si è unito al gruppo anche un mangiafuoco.
Un mangiafuoco?
È andata così: eravamo arrivati ad Avignone con pochi soldi in tasca. Dormivamo negli ostelli, come avevamo sempre fatto. Viaggiavamo con il vecchio pulmino mio e di Mino, un mezzo malandato che ci aveva portato ovunque. Una volta lì, abbiamo girato il festival per due o tre giorni. Il problema era tornare a casa: non avevamo più un soldo. Eravamo proprio incastrati male. Così abbiamo deciso di improvvisare un concerto per strada, in un punto da cui sapevamo non ci avrebbero cacciato. Mino e Franco sono riusciti a recuperare un paio di tastiere, non so nemmeno come. Io mi sono messa a cantare senza problemi, mentre il mangiafuoco si è unito alla performance con la sue prodezze. Alla fine, con le offerte dei passanti incuriositi, siamo riusciti a raccogliere abbastanza per tornare indietro. In quel periodo Franco ha conosciuto Paolo Scarnecchia che faceva parte dei Radicali e, attraverso di lui, è nata l’idea di formare un gruppo per un tour organizzato proprio dal partito, con Mino, Franco, Juri, Capra Vaccina, Roberto Mazza e Vincenzo Zitello, che però è rimasto con noi solo per poche date, visto che non aveva ancora compiuto 18 anni. Abbiamo cominciato il tour e in Puglia e ci hanno rubato tutti gli strumenti, eppure siamo riusciti a proseguire. Abbiamo fatto ancora qualche concerto, finendo la tournée come potevamo. L’unica registrazione che ci è rimasta di quel periodo è quella di Gela. Peccato, il resto è andato perso.
So che improvvisavate tutto ogni sera, non avevate nessun canovaccio scritto?
Improvvisavamo senza uno schema rigido da seguire. C’era grande libertà, una tendenza naturale a una sorta di meditazione musicale creativa. Io la sentivo fortissima, ma anche gli altri, chi più chi meno, vi si abbandonavano. Anche il caos aveva il suo posto: non era mai fine a sé stesso, non serviva solo a distruggere, ma a ricostruire, a trovare nuove strade. In generale c’era una preparazione solida dietro, ognuno di noi aveva la sua esperienza, sapeva muoversi dentro quella libertà apparente. E così, senza bisogno di schemi, riuscivamo a creare qualcosa di autentico, ogni volta diverso, ogni volta nuovo. C’era un amalgama molto bello, luminoso che si respirava tra di noi. Era proprio quello il risultato che tutti desideravamo raggiungere: una sinergia creativa che, nonostante le difficoltà, riusciva a emergere.

Franco Battiato, Mino Di Martino, Terra Di Benedetto. Foto per gentile concessione di Terra Di Benedetto
Cosa ti è rimasto di quel tour?
Tante cose. Ricordo le giornate pesanti, tra gli spostamenti, gli alberghi spartani, i pochi soldi. Ma la questione economica non era mai il cuore della cosa, serviva solo a coprire le spese necessarie per andare avanti, per vivere quel momento. Mi ricordo il teatro di Gela, freddo come il ghiaccio, senza riscaldamento. Anche in Puglia c’era questo teatro che sembrava quasi abbandonato, un teatrino che non ci dava l’impressione di essere un luogo molto attivo. Sembrava dismesso, isolato. Era come se fossimo pellegrini, viandanti che andavano avanti come potevano. Non abbiamo mai patito la fame, per fortuna, non ci è mancato nulla, eravamo sempre assistiti in qualche modo. E io, l’unica donna in quel gruppo di uomini, mi sentivo parte di quel viaggio, c’era una magia nell’esserci tutti insieme, in quella condizione.
Come mai non siete arrivati a incidere un album?
Ci abbiamo pensato, se fai un gruppo, poi ci si arriva inevitabilmente, anche se non sempre è facile far quadrare tutto. Avevamo presentato il progetto, con grande entusiasmo, pensando che fossimo una squadra unita. Mentre proseguivamo con la tournée sono emerse delle differenze caratteriali che mi hanno sorpresa. Problemi di ego, e per me la cosa più difficile non era tanto la musica, quanto come trattare con delle persone che avevano a che fare con le loro questioni personali. Se non c’è comprensione reciproca, un progetto non può decollare. Come giustamente ha detto Franco: il Telaio è morto prima di nascere.
Battiato negli anni ’70, ha passato diversi momenti di inquietudine, di crisi. Cos’è che lo turbava così tanto, secondo te?
Il momento era strano, pieno di tensioni, di cambiamenti profondi. I tempi erano in continua evoluzione. Alcuni princìpi crollavano, mentre altri erano solo accennati, come se dovessimo annusarne di nuovi senza ancora poterli definire. Tutto sembrava in bilico, come una grande ricerca che non aveva una meta certa, ma che ci trascinava comunque. C’era questa sensazione di rinnovamento, di scoperta, ma anche di grande confusione. Le ricerche interiori, le meditazioni, la ricerca di sé…. Franco, come me, faceva parte di una generazione che cercava risposte, anche se spesso le risposte erano più confuse delle domande. Quando toccavi una certa corda dentro di te, ti impegnavi, ti sentivi parte di qualcosa, ma era tutto nuovo, forse troppo nuovo, molto diverso da ciò che avevamo conosciuto prima. Ricordo le occupazioni, i momenti in cui cercavamo di cambiare il mondo, di fare qualcosa di diverso. Tutto questo creava gioia, ma anche grandi arrovellamenti. Non a caso a un certo punto Franco ha percorso un’altra strada, a livello spirituale e musicale, una strada che sembrava più strutturata, più definita. Era tipico della sua personalità; forte, incisiva, che sentiva il bisogno di mettere ordine nel caos, di dare una forma alla ricerca. E la formazione con la scuola di Gurdjieff è stata fondamentale per lui. Lì finalmente è riuscito a mettere in ordine tutte le cose che stava cercando dentro di sé, trovando una struttura che gli dava una direzione più chiara.