Chris Martin ricorda benissimo quand’è cambiato tutto. È successo poco dopo la pubblicazione del secondo album dei Coldplay A Rush of Blood to the Head. Era il 2002. «Hanno iniziato a rinfacciarci il successo. E improvvisamente eccoci diventati la band meno popolare al mondo. Non ci era mai capitata prima una cosa del genere, gestirla è stato un gran casino».
I singoli Yellow e Clocks avevano fatto il botto, ma c’erano problemi con l’etichetta discografica e non erano tanto sicuri dei demo che avevano inciso per l’album successivo. Martin doveva ancora capire come gestire da una parte la band che aveva col chitarrista Jonny Buckland, il bassista Guy Berryman e il batterista Will Champion, e dall’altra la paternità. «Avevo l’autostima sotto le scarpe. Non sentivo più la voce dentro di me che mi diceva cosa fare».
È una voce che Martin non è mai riuscito ad evocare a comando. Quando la sente, le canzoni arrivano e succede proprio quando ne ha bisogno. E difatti in quel momento è arrivato il pezzo che ci voleva, Fix You, la ballata che ha garantito un futuro ai Coldplay. Nei due decenni successivi hanno seguito quella linea in altri sette album, fino al nuovo Moon Music. Ci sono stati successoni pop, escursioni nell’EDM e persino una collaborazione coi BTS.
Tutto ciò li ha portati fin qui, con Martin che dice che i Coldplay faranno solo altri due album dopo questo (è una cosa che ripetono da anni). «Continueremo a fare tour e resteremo amici, ma credo che la storia discografica finirà» col dodicesimo album. Ne restano due. Il cantante immagina un musical e un disco «grezzo e semplice». E poi «quando finiremo l’album numero 12, tutto avrà un senso. Se oggi non qualcosa non vi quadra, non preoccupatevi, tornerà tutto».
Gli abbiamo chiesto di raccontare le 10 canzoni che secondo lui definiscono la storia dei Coldplay.
«Yellow è un bel punto di partenza. Senza questa canzone non esisteremmo. Come per tutte le nostre canzoni migliori, non è esattamente mia. È arrivata e basta. Eravamo in Galles a registrare in uno studio chiamato Rockfield. Sarà stato il 1999 o forse l’inizio del 2000. Stavo incidendo un pezzo chiamato Shiver e mentre registravo la parte acustica il macchinario s’è rotto. Non ero uno di quelli che pensa che dai problemi nascono le opportunità, ma è esattamente quel che è stava accadendo senza che manco me ne accorgessi».
«Sono uscito dallo studio col produttore Ken Nelson, che m’ha detto “Guarda le stelle”. Era una notte bellissima, lo studio era in mezzo al nulla, il cielo brillava. Tornati dentro, il registratore ancora non funzionava. Quelle parole, “look at the stars”, hanno cominciato a girarmi per la testa. Ho pensato a Neil Young che riesce a far suonare la parola “stars” così americana. E insomma, mi son messo lì a cercare di cantare come Neil Young, ma sembravo la rana Kermit. Poi è arrivato un accordo, non sapevo cos’era di preciso, ma suonava bene e in men che non si dica è arrivata tutta la canzone».
«Il titolo Yellow, giallo, viene dalle Pagine gialle. La canzone è nata da un problema, da un pezzo di macchinario che non funzionava, da un oggetto che c’era lì e dalle stelle nel cielo. Un regalo. Sono andato da Jonny e Will che stavano giocando a Fifa in salotto e ho detto: “Sentite questo pezzo, che ne pensate?”. Hanno alzato a stento lo sguardo. “Mmm, ok”. Poi è passato un sacco di tempo prima che capissimo come suonarla per bene, ma abbiamo perseverato finché non è diventata come la conoscete».
«Yellow è stato il passaporto che ci ha permesso di andare in giro. La prima volta che siamo andati in America, prima che capissi come gestire le emozioni, ho avuto una crisi perché la casa discografica aveva cambiato la copertina del singolo per renderla più… gialla. Sono andato fuori di testa. “Eh no, abbiamo scelto con cura quella sfumatura calda di arancione”. E loro: “Ma come, la canzone si intitola Yellow”. “Ma allora non capite!”. Oggi affronterei la cosa con più diplomazia».
«L’ultima canzone che abbiamo registrato per A Rush of Blood to the Head. Anche questa mi sembra che mi sia arrivata dal nulla. Ero al pianoforte e stavo suonano un arpeggio ispirato a un pezzo di Bruce Springsteen che ne ha uno simile. Il testo non è completo al 100% neanche nella versione pubblicata su disco. Mi sono chiesto spesso anch’io col passare degli anni che cosa significava qual borbottio. Ci sono pezzi che arrivano già belli che fatti, in cui anche un borbottio ha senso, e quindi non ci rimetti mano».
«È uscita su singolo nel 2003, l’anno in cui forse l’avete sentita. Qualsiasi artista pop sarebbe insoddisfatto della posizione raggiunta in classifica delle nostre, tra virgolette, hit. Non sono esattamente pop, trovano una loro strada col tempo. Questo per dire che Clocks è arrivata credo al numero 50, il che è buffo, per certi versi tutte le nostre hit all’epoca sembravano dei flop. Ma certe canzoni sono speciali».
«Questa la suoniamo ancora tutte le sere ed è divertente farlo. Quando l’abbiamo fatta a Glastonbury, era la prima volta che ci esibivamo sul palco principale e avevamo un grande impianto di luci al laser verdi. Ci sembrava una roba incredibile. E quindi da allora tutte le volte che suoniamo Clocks ci devono essere delle luci laser. Se non ci sono, mi sembra che manchi qualcosa».
«Era un brutto periodo per la band. Avevamo avuto un certo successo coi primi due dischi. Phil Harvey, il nostro direttore creativo e mio miglior amico, se n’era andato perché sentiva di non avere più un ruolo artistico. L’etichetta per cui incidevamo era sempre la stessa, ma in quel periodo la proprietà sembrava ossessionata dal valore delle azioni, che è un messaggio strano da dare a un band. Mi ero appena sposato, ero diventato padre di una bambina che oggi è donna. Non ero più me stesso e la cosa vale anche per gli altri del gruppo. C’era della dipendenza, c’erano tutte queste cose assieme».
«L’unica cosa positiva era la bambina. La madre aveva ricevuto da suo papà, che era morto, una tastiera chiamata Korg Triton. Aveva dei suoni che non avevo mai sentito prima. Ho mandato un po’ di demo all’etichetta e l’A&R mi ha richiamato dicendomi che non c’era niente di buono. E aveva ragione, tranne che per un pezzo chiamato Gravity. Ero molto insicuro all’epoca. Le canzoni arrivavano da sole e quindi mi ritenevo semplicemente fortunato. Nel disco ci sono belle melodie e pezzi buoni, ma non siamo riusciti a farli suonare bene e a editare l’album. È troppo lungo, ci sono troppi pezzi, canto delle stesse cose in troppe canzoni. Ha un sacco di difetti ad eccezione di Fix You, che ci ha permesso di andare avanti per cinque anni. Qualcosa la cambiarei anche in questa canzone, ma è buona».
«È nata dalla situazione in cui ci trovavamo. Stava cadendo tutto a pezzi. La band era un gran casino. Non sapevamo più perché facevamo musica. Non andavamo d’accordo. Non avevamo un posto nostro dove andare a suonare. Questa canzone è stata la luce che ha illuminato un periodo buio. I ricordi che ho della registrazione di quell’album sono tremendi. Un errore dietro l’altro, un problema dietro l’altro. Non ero attrezzato per gestire le cose, quindi perdevo facilmente la pazienza, mi arrabbiavo e questo ha causato una frattura nella band, nessuno si sentiva libero creativamente perché ero diventato un tiranno insicuro. Sono contento di essermi messo alle spalle quel periodo, farlo era necessario. Però ha portato a un sacco di cose belle che sono venute dopo. Se non fosse per Fix You, questa band non esisterebbe».
«È la canzone grazie alla quale sono cambiate un sacco di cose per me. L’inizio d’una nuova vita. Abbiamo cominciato a studiare con Brian Eno e Markus Dravs. Abbiamo preso uno spazio nostro e abbiamo ricominciato da zero, come se nulla fosse accaduto prima, come se non avessimo mai avuto successo. E non c’erano pressioni, c’era solo la volontà di ritrovare la gioia d’essere una band».
«In quanto a me, ho dovuto imparare a lasciare Guy, Will e Jonny liberi di provare qualunque cosa. Ho dovuto combattere la mania del controllo e rimpiazzarla con una visione, e sono due cose ben distinte. All’interno di una visione, posso lasciare che anche gli altri siano sé stessi. Quando invece sei un maniaco del controllo, finisci per soffocare le persone che ha attorno e in una band non va affatto bene. E insomma, Brian è arrivato e ha tolto ragnatele e paure. E sono sicuro che Jonny, Will e Guy sono molto più felici da quando Brian ci ha rieducati. Anch’io lo sono, a dirla tutta. All’epoca Brian aveva 60 anni, eppure arrivava ogni giorno carico come un bambino pieno di curiosità, meraviglia, eccitazione, gioia per la musica e gioia anche alla prospettiva di fallire perché hai provato cose che alla fine non hanno funzionato».
«Ecco, con quel disco abbiamo riscoperto la gioia. Tutto il disco girava attorno a una canzone, Viva la Vida. È venuta in modo naturale, ma ci sono voluti comunque dei mesi per produrla nel modo giusto. Abbiamo provato varie versioni che però non funzionavano. Quando l’abbiamo finita, l’etichetta discografica ci ha chiesto di non metterla nell’album perché non sembrava un pezzo dei Coldplay. E no, abbiamo detto, la teniamo, magari non sembra come gli altri pezzi dei Coldplay, ma la nostra missione come band è cercare di fare la cosa giusta e seguire l’ispirazione delle canzoni».
«È una storia divertente. Tutto nasce dal fatto che sono un grande fan di Rihanna e amo la ripetizione di “ella, ella, ella” alla fine di versi di Umbrella. Mi sono chiesto se avrebbe funzionato ugualmente ripetendo invece le prime sillabe: “para-, para-, para-”. Poi c’è il discorso di X Factor. Lo show era famosissimo ai tempi e, come credo a tutti, mi piaceva guardarlo. Volevo scrivere il brano per il vincitore nel 2011. E insomma, avevo in testa queste due cose: le canzoni di Rihanna e X Factor. Ed è venuta fuori quest’idea del “para-, para-, paradise”. L’ho fatta sentire al resto della band spiegando che l’avremmo regalata al vincitore di X Factor. E Will: “No, non diamo a nessuno questa canzone, la facciamo noi”. Ironia della sorte: quello stesso Natale abbiamno cantato Paradise a X Factor».
«Non ci è voluto molto per produrla, ma mancavano due righe di testo e stavo per impazzire. A volte, con le canzoni che sono praticamente finite, mancano pochi elementi chiave. Qui c’era un verso che recitava: “So lying underneath those stormy skies, she’d say…”. Non riuscivo a capire cosa avrebbe potuto dire per tornare a “this could be paradise”. Ci sono voluti mesi. Ho preso in considerazione mille cose diverse che avrebbe potuto pensare per trasformare questo posto in un paradiso. Quella che ho scelto alla fine non è esattamente Shakespeare, ma ha senso, e cioè: “The sun must set to rise”. Non appena ci è venuto in mente, ci siamo detto: ora sì che è finita, possiamo pubblicarla. Gran parte di quell’album era stato progettato per far parte di un film musicale su un alieno coi piedi magici, ma era troppo complicato. È stato il momento in cui abbiamo superato tutti i limiti. Se abbiamo una canzone che è una roba strana tipo trap, ska, reggae, metal e però ci piace, allora la facciamo. È stato liberatorio».
«Gli altri della band erano tornati in Inghilterra, io ero rimasto a Los Angeles. Ho chiamato Avicii e gli ho chiesto di aiutarmi a produttore questo pezzo, A Sky Full of Stars. Non lo avevo mai incontrato prima ed è arrivato veloce come un fulmine. Avete visto Gli Incredibili? Avete presente il ragazzino, Dash, quello col potere della velocità? Ecco, Avicii era come lui. Riusciva a lavorare così rapidamente che quasi non lo vedevi. Avevo registrato il piano e la voce. La mattina dopo ho ricevuto da lui un pezzo EDM fatto e finito sul mio telefono. È stato incredibile. E poi noi, essendo i Coldplay, abbiamo passato tre mesi cercando di sposare quel suono con quello classico della band per creare una cosa che non fosse semplice EDM».
«Sì, la canzone ha creato un po’ di conflitti, perché non eravamo mai entrati in quel mondo prima. Ma l’abbiamo abbastanza destrutturato e alla fine siamo arrivati al punto in cui tutti sentivamo che andava bene per quel brano. Will, il nostro batterista, non sapeva che pensare del pezzo. Una volta inserito nel contesto dell’album, ha capito e ha dato il suo ok. Se una canzone non gli piace, non la pubblichiamo. Per Will e per tutti in realtà, il contesto e l’abito che metti alle cose sono molto importanti. E in questo caso c’è voluto uno sforzo extra per assicurarsi che quel suono andasse bene per la nostra band».
«Per la mia esperienza, più le persone sono in grado di esprimersi e di mettersi alle spalle ciò che le ferisce e poi di essere se stesse, maggiori sono le possibilità che hanno di amare se stesse, ma anche di amare gli altri e di accettarli. A Sky Full of Stars è la nostra canzone sull’amore incondizionato. È un brano divertente da suonare adesso perché in un certo senso esprime quel che proviamo per chi ci ascolta. Magari ti piacciamo oppure no. Non importa, ti vogliamo bene in ogni caso. Qualunque cosa tu senta ci sta, non ci saranno ritorsioni. Ed è un bel modo di vivere. Anche se un giorno non mi sento così, cantare il pezzo mi riporta in quel mood: ok, qualunque cosa tu dica non ti auguriamo alcun male, fai quello che vuoi».
Adventure of a Lifetime
2015
«Quando stavamo lavorando all’album A Head Full of Dreams pensavo: il nostro prossimo singolo non può essere una canzone in cui ci sono io di nuovo in prima linea, sarebbe una noia. Jonny è un ragazzo piuttosto umile, le sue parti sono incredibili e si adattano alle melodie che canto, le due cose si completano a vicenda. È su questo che abbiamo fondato la band. Non si sente mai a suo agio a emergere in una canzone, ma una volta lo ha fatto con In My Place. Volevo fare una canzone guidata dal riff di chitarra, era da tempo che non ne facevamo una. Uno dei miei compiti principali è ascoltare Jonny che improvvisa in loop, una tecnica che ci ha insegnato Brian Eno. Metti in loop una sezione della canzone e poi Jonny trova le sue parti semplicemente suonando, ancora e ancora».
«C’era una jam intitolata Legends e non era granché, ma comunque Jonny stava suonando quel riff. Era fantastico. Poi è rimasto fermo per un po’ e abbiamo lavorato con Stargate, il duo di produttori norvegesi. Era un miscuglio. C’erano una sequenza di accordi con cui stavo giocando, il titolo Adventure of a Lifetime, un ritmo più veloce. Non ricordo com’è successo, ma hanno preso il suo riff e l’hanno adattato a questo nuovo ritmo. Abbiamo capito subito che era splendido. E mi è permesso dirlo perché non si tratta di roba solo mia. Sono così grato per il riff e per lui, perché musicalmente è un match made in heaven. È divertente suonare questa canzone. Non penso che sia necessariamente il nostro meglio, ma la sensazione che dà è importantissima per noi. E il riff è magico».
«Everyday Life non ha singoli e non è stato pensato per averne. C’era però comunque da estrarre una canzone dall’album. Oggi seguirei l’esempio di Billie Eilish, Taylor o Beyoncé, e direi che nessuna di queste canzoni può reggere come singolo. Il pezzo più importante per me era Daddy e non era affatto un singolo».
«Non so se nella canzone chiedo scusa ai miei figli o se mi sto rivolgendo a mio padre. In quel periodo stavo leggendo libri sul sistema giudiziario americano. Ce n’è uno intitolato The New Jim Crow che parla dell’incarcerazione di massa di uomini neri innocenti, parliamo di un’intera generazione sparita. Mi ha sconvolto. Padri che vengono portati via dai figli senza che abbiano fatto assolutamente nulla, zero, niente di male. È un sistema che ti frega solo per il tuo aspetto».
«Tutto l’album parla di cose del genere. Amo cantare del potere dell’amore, che è l’istinto, la forza da seguire. Non voglio sembrare ingenuo, so che a volte do quell’impressione. Non viviamo in un vuoto utopico. Sappiamo che ci sono un sacco di problemi e il pezzo racconta come ci sentiremmo se succedesse a noi, o comunque è quello che ho provato leggendo quelle storie. Non è un argomento che ho affrontato a cuor leggero, il modo giusto per farlo è stato con un pezzo come Daddy. Come mi sentirei al posto loro, o quale parte di quell’esperienza posso capire, se ce n’è una? A cosa possono relazionarsi i miei figli? Ok, il loro papà non è stato incarcerato ingiustamente, ma era spesso lontano».
«Avevo chiesto a Bill Rahko, che lavora con noi, se gli avanzava della musica. Ne aveva, e anche un accenno di melodia. Ascoltando il loop che aveva creato m’è venuto in mente il ritornello: “You, you are my universe”. E ho pensato: se canto “you”, allora qualcun altro dovrebbe rispondere subito “you, you, you are, you are”, e così via».
«Mi avevano detto che i BTS stavano cercando una canzone, anche se non era vero. Mi son detto: non essere ridicolo, non funzionerà mai, che sciocchezza sarebbe. Ma questa cosa continuava a girarmi per la testa. Comunque, la canzone parlava di persone a cui viene detto che non possono stare insieme, tipo Romeo e Giulietta o coppie interrazziali o coppie interreligiose, o posti dove le persone LGBTQ sono fuorilegge. E quindi la dovevamo cantare con qualcuno con cui non saremmo dovuti stare assieme. Alla fine è stata una collaborazione naturale e stimolante. Farei qualsiasi cosa per quei ragazzi in qualsiasi momento. Sono stati favolosi. Hanno reso la canzone straordinaria».
«Un po’ è stato imbarazzante, ho provato a cantare in coreano inventato nel break prima del ritornello, spero che nessuno lo senta mai, perché a) probabilmente è sbagliato farlo e b) il risultato era ridicolo. Ho chiamato RM dei BTS, hanno scritto i loro testi e tutti gli ad-lib. La mia figlioccia mi ha istruito su cos’è l’Army e sul profilo dei vari componenti. Quando sono arrivato a Seul sapevo tutto dei membri che rappano e quindi volevo che da qualche pate nella canzone ci fosse spazio per Suga e J-Hope. È stato divertente stare in studio. All’inizio c’era del nervosismo, non si sapeva cose fosse di preciso quel che stavamo creando… e ci sono sempre videocamere che li seguono. Era destino che accadesse, o almeno quella era la sensazione che abbiamo provato. Ora siamo una boy band composta da sette giovani coreani molto belli e un vecchio ragazzo bianco e va bene così».
«Seguiamo le canzoni ovunque ci portino, anche se significa andare in Corea per lavorare con una boy band, sapendo che facendolo distruggerai ogni briciolo di coolness e di credibilità che t’è rimasta, e per di più rischiando di far arrabbiare anche i loro fan. Ma è la filosofia che seguiamo. L’identità della band è cambiata adattandosi alle canzoni che abbiamo scelto di fare, abbiamo permesso loro di essere quel che sono. Se oggi volessimo fare un pezzo con gli One Direction, nessuno ci troverebbe nulla di strano. Ok, non sarebbe possibile perché sono andati in cinque direzioni diverse, ma insomma è divertente lasciare che la band cresca in questo modo».
«All My Love è l’ultimo singolo dei Coldplay. Dopo questo non ce ne saranno più, non vogliamo più farne. È una di quelle canzoni che sono venute fuori velocemente, non riesco neanche a capire come. Non so se qualcuno la sentirà sua, ma per me è importante. Dice: dopo tutto quel che abbiamo passato, tu hai tutto il mio amore. Tutto qua. È quel che proviamo per la vita, per il mondo, per i fan, per i critici, per tutti quanti. Non ho dovuto fare nulla per scriverla. L’ho solo suonata. Non so come spiegare questa cosa. Anche quando la canto ora, mi chiedo come sia riuscita a passare attraverso di me».
«La prima volta che l’abbiamo fatta dal vivo non era programmata. Un tipo ha cercato di salire sul palco, ma è caduto e non è stato bello. Il finale del concerto era rovinato. C’era tensione nell’aria, il suo era stato un gesto strano e poteva morire. Per fortuna non è successo. Serviva una canzone per calmarsi. Qualunque cosa sia successa, è tutto amore».
«Adoro cantarla, adoro suonarla e non ho niente da dire su di essa se non che i Coldplay non sono mai stati cool e mai lo saranno. Potremmo essere i numeri uno o i numeri 100. Nulla di tutto ciò conta davvero. Ci arrivano queste canzoni e le facciamo per le persone a cui piacciono, e a volte anche per le persone a cui non piacciono, in modo che possano sfogare un po’ d’aggressività su di noi in modo che nessuno si faccia del male. Quindi All My Love è un modo per dire: rilassatevi. Queste sono le nostre canzoni e questo è quel che facciamo. Se poi ti piacciamo, tanto meglio, eccoci qua».
Da Rolling Stone US.
Antonio Santini for SANREMO.FM