No, non riprenderemo l’annosa diatriba sulla doppia vita degli Ultravox, quelli puri e avanguardisti trainati dal visionario John Foxx e quelli più pragmatici e di maggior successo guidati dal nuovo frontman Midge Ure. Anzitutto perché ci ha annoiato a morte (per la sua insensatezza, in primis) e poi perché questa playlist, che ripercorre entrambi i periodi, cerca semmai di sottolinearne i punti di contatto e una certa continuità sperimentale. E infine, a maggior ragione, perché anziché andare a ripescare le hit da classifica della formazione britannica, ci concentreremo – come avrete intuito – sul lato più nascosto e meno conosciuto della sua produzione, spesso altrettanto (se non più) ispirato. Insomma, niente “Dangerous Rhythm”, “I Want To Be A Machine” o “Hiroshima mon amour” dalla fase iniziale oppure “Vienna”, “The Voice” e “Dancing With Tears In My Eyes” da quella successiva. Scaveremo nelle tracklist dei dischi firmati Ultravox – dal fondamentale esordio omonimo del 1977 al decollo del nuovo corso con “Vienna” fino alla reunion di “Brilliant” del 2013 – andando alla (ri)scoperta di quei tesori nascosti che hanno sempre caratterizzato la loro discografia, donando ricchezza e varietà ai loro lavori.
P.S. Quando questa playlist era già stata completata, è arrivata in redazione la notizia della morte di Chris Cross, lo storico bassista degli Ultravox. Abbiamo quindi pensato di dedicarla alla sua memoria, ricordando, come ha sottolineato anche Ure nel suo messaggio d’addio, il fondamentale ruolo di “collante del gruppo” svolto da Cross, che era anche regista di alcuni dei memorabili video della band britannica.
Saturday Night In The City Of Dead
Non bastasse la loro qualità, ai brani del periodo Foxx va riconosciuta anche la bellezza dei titoli. A cominciare proprio dal primo pezzo che apre il primo omonimo album del gruppo britannico, registrato nel 1976 e pubblicato nel 1977. Il “sabato sera nella città dei morti” scorre su un ritmo post-punk indiavolato ma al tempo stesso controllato, come in un balletto robotico. Lo scenario è da “Cronache del dopobomba”, per dirla con Philip K. Dick: un futuro meccanizzato e terrorizzante, che sopprime la vitalità e annienta l’individuo. Scritta quando la band si chiamava ancora Tiger Lily, anticipa la nuova formula, ma mantiene indubbi legami con l’era punk.
Slip Away
Con questa piccola pièce art rock, invece, gli Ultravox lasciano subito trapelare tutte le ambizioni del loro progetto, che non si limita certo a rinnovare la furia del punk, ma punta semmai a superarla, coniando un loro sound futurista e decadente, figlio dell’elettronica pionieristica di Brian Eno e Kraftwerk, ma anche del glam-rock di David Bowie e Roxy Music – questi ultimi particolarmente richiamati nelle sfumature eleganti di questo brano, composto da John Foxx insieme al tastierista Billy Currie, che emerge subito come la seconda anima della band, quella più orientata a richiami atmosferici e (neo)romantici. Quello fra lo spirito futurista del primo e l’animo romantico del secondo sarà un confronto destinato a caratterizzare tutta la storia della band. Eleganza e nostalgia, dietro il gelo dei synth.
Fear In The Western World
La “paura nel mondo occidentale” è sempre quella che ossessiona l’intera new wave: l’angoscia per la Guerra Fredda, per un futuro meccanico e disumanizzato, in cui l’onnipresenza del medium televisivo evoca spettri da Grande Fratello orwelliano: “Your picture of yourself it’s a media myth/ Someone told me Jesus was the Devil’s lover/ While we masturbate on a magazine’s cover/ Mother’s still on valium/ Daddy puts the news on tv/ Orphans laughs at the confusion/ Ireland screams/ Africa burns/ Suburbia stumbles/ I can feel the fear in the western world”. Un dissonante punk elettronico scandisce un teatrale festival assurdista dalla marcata vena ironica, per un’apoteosi corale firmata da tutti i membri del gruppo al lavoro sul secondo album “Ha Ha Ha!” (1977): Warren Cann, Chris Cross, Billy Currie, John Foxx, Stevie Shears.
Artificial Life
John Foxx torna a vestirsi da androide per questo interessante pastiche elettronico, che riprende laddove “I Want To Be A Machine” su “Ultravox!” aveva lasciato. Prodotto come il predecessore da Steve Lillywhite, pupillo di Brian Eno (che aveva lasciato il suo zampino sull’esordio), “Ha! Ha! Ha!” conferma gli Ultravox tra i padri fondatori della new wave, con una formula che ibrida elementi cruciali e per molti inconciliabili prima della loro impresa, come il glam-rock e il kraut-rock, l’elettronica e una primordiale forma di punk. Una “vita artificiale” nella quale però pulsa un cuore creativo martellante. Con un assolo finale di chitarra al cardiopalmo. E più di qualche assonanza con i coevi – e meravigliosamente acerbi – Japan di “Adolescent Sex”.
Dislocation
Nel terzo e ultimo capitolo della saga Foxx, “Systems Of Romance” (1978) – primo lavoro con la produzione di Conny Plank, guru del rock elettronico fin dall’era dei leggendari Can – gli Ultravox perdono il punto esclamativo, ma guadagnano in varietà sonora, abbandonando progressivamente il punk e il glam in favore di un incontro-scontro integrale fra elettronica e romanticismo. Il totale predominio di questi ultimi due elementi va interpretato come riflesso della tensione sempre maggiore fra Foxx e Currie, che risulterà incredibilmente positiva per la riuscita del disco ma porterà, nel 1979, all’inevitabile divorzio. Con i suoi singulti di drum machine e tastiere e con i suoi cori spettrali, ad assecondare il cantato desolato e asettico di Foxx, “Dislocation” è forse l’apice sperimentale di un album graziato dall’ispirazione anche nei suoi episodi apparentemente minori.
Maximum Acceleration
A proposito di episodi apparentemente minori, eccone uno, in cui la “massima accelerazione”, è in realtà una progressione sorniona propulsa da cupe linee di basso, con il cantato di Foxx avvolto in drappi di synth e trafitto da riff laceranti di chitarra, in un’atmosfera decadente tipicamente bowiana, in cui l’eleganza cela la tensione crescente. Un piccolo gioiello all’interno di un disco in cui gli Ultravox si consacrano alfieri di una new wave tutta europea, che rifugge i cliché del rock americano: Currie usa il violino ripudiando le scale blues e rifacendosi semmai alla classica, Foxx attinge a un immaginario decadente in linea con le avanguardie del Vecchio Continente. Peccato però che l’idillio tra il Quiet Man e il resto della ciurma sia giunto ormai al capolinea. Gli Ultravox proseguiranno inseguendo l’amore di Currie per il decadentismo e il romanticismo e sfornando una serie di dischi meravigliosi, fra le migliori espressioni del synth-pop degli anni 80; Foxx, invece, avvierà una carriera solista dalle mille incarnazioni, dando sfogo alla sua passione per il futurismo, a partire dal gelido capolavoro “Metamatic”.
Astradyne
A gettare alle ortiche definitivamente ogni polemica sulla presunta “commercializzazione” degli Ultravox post-Foxx basterebbe anche solo questa fantasmagorica mini-suite siderale che apre “Vienna” (1980), primo – e miliare – capitolo del nuovo corso. Sette minuti mozzafiato all’insegna di un’elettronica sperimentale e magniloquente, che riecheggia i tempi d’oro dei Tangerine Dream, propulsa da un basso pulsante che si fonde con le melodie disegnate da synth-killer, mentre sequencer e batteria scarna ci trasportano in un viaggio cosmico costellato di vortici onirici e assoli tastieristici. Uno dei migliori strumentali targati Ultravox e dell’intera new wave.
New Europeans
Con “New Europeans” siamo al confine tra classico da antologia e chicca da riscoprire. Se per i fan degli Ultravox può valere la prima accezione, per tutti gli altri potrebbe essere necessario ripescare dal cassetto dei ricordi questo numero d’alta scuola, piazzato in seconda posizione nella tracklist di “Vienna” e (misteriosamente) mai pubblicato come singolo. Manifesto della celebrazione mitteleuropea del disco, il brano irrompe nelle casse con il suo incedere saltellante scandito dal battito ossessivo di Warren Cann, che alterna i tempi della batteria mentre la chitarra lacerante di Ure pennella un primo bridge rock e un secondo più sospeso e melodico. Magistrale anche il cantato singhiozzante dello stesso frontman, assecondato dai ghirigori astratti delle tastiere che lasciano spazio nel finale a un magnifico piano. L’Europa degli Ultravox è un continente corroso dalla decadenza, raffigurato con scenari glamour quasi hollywoodiani (stile “Julia”), ma capace di gettare uno sguardo inquieto sul futuro: “On a crowded beach/ washed by the sun/ He puts his headphones on/ His modern world revolves around the synthesizer’s song/ Full of future thoughts and thrills/ his senses slip away/ He is a European legacy/ A culture for today”. Musicalmente, Ure e soci compiono un’operazione inversa a quella portata avanti in quegli anni da Trevor Horn: non sovvertono le strutture della canzone pop, ma le convertono in un formato artistico, attraverso contaminazioni con l’elettronica (le tastiere) e la classica (il violino).
Mr. X
L’ascendenza kraftwerkiana degli Ultravox è ribadita da quest’altro magistrale numero robotico che sembra provenire direttamente dai solchi di “The Man-Machine”: è la storia di un misterioso viaggiatore narrata dalla voce del batterista Warren Cann con recitato glaciale su un lussureggiante tappeto di synth, con l’irruzione finale della viola di Billy Currie. I ritmi pulsanti e marziali, le campionature ossessive, gli effetti distorti e riverberati del vocoder evocano scenari cyberpunk. “I’m still searching”, declama ostinatamente Cann. E tutti si interrogano su quale sia l’oggetto della ricerca… Una prodezza assoluta, ideale colonna sonora per un romanzo di fantascienza di Philip K. Dick. Da inoculare in loop a mo’ di cura Ludovico a tutti coloro che accusano gli Ultravox targati Ure di aver rinunciato alla sperimentazione.
I Remember (Death In The Afternoon)
Anche qui siamo su quel crinale sottile che separa il classico (per i fan) dalla traccia da riscoprire (per tutti gli altri). Chi ama gli Ultravox del periodo-Ure non può non avere come stella polare questa gelida pièce elettropop, sfuggita però ai più a causa della maggior popolarità di altri brani di “Rage In Eden”, quali i singoli “The Thin Wall” e, soprattutto, “The Voice”. Propulsa dal drumming ossessivo di Cann, l’istantanea noir di “I Remember” è un altro magistrale saggio del cantato teso e metallico di Ure, sfregiato dai continui graffi delle chitarre e cullato dall’andamento sinuoso delle tastiere di Currie, fino alla straordinaria impennata finale: un crescendo colmo di pathos in cui una partitura di piano di struggente bellezza si sposa ai laceranti strappi delle chitarre, preludendo alla reprise del ritornello. Il vertice emotivo dell’Eden sintetico e uno dei capolavori dell’intera saga ultravoxiana.
Accent On Youth
L’intero “Rage In Eden”, ultimo loro album prodotto da Conny Plank, è in realtà un nuovo incubo futurista, un requiem sepolcrale filtrato dal grigio colore del vetro, come testimoniano una serie di episodi di marca prettamente sperimentale (alla faccia della presunta svolta commerciale teorizzata dai soliti balordi). Quasi un propellente per l’esplosione strumentale successiva di “The Ascent”, l’elettro-rock di “Accent On Youth” è scandito da un drumming martellante che non dà tregua e impreziosito da una ragnatela di ricami chitarristici, a screziare la spessa coltre delle tastiere, mentre Ure si produce in un altro suo grido di dolore (“You take my time you live my life for me/ What have I done to rate this penalty/ You suck me dry/ My body cries”). Il brano in realtà non si conclude, ma sfocia naturalmente nell’episodio successivo. Ed è un’altra rivelazione.
The Ascent
Già, perché terminata la fase di confluenza della traccia precedente, di cui inizialmente sembra solo una prosecuzione, “The Ascent” sfodera un altro strabiliante incanto strumentale, con lo struggente assolo di violino di mastro Currie a sfidare le tastiere in un maestoso crescendo sinfonico alla Schulze che lascia senza fiato. Solo 2 minuti e diciannove, ma tra i più belli e suggestivi dell’intera carriera della band britannica, con in cattedra Currie e i suoi influssi classicheggianti, tra Ciajkovskij e Bela Bartók, ma anche il compianto bassista Chris Cross con le sue modulazioni sintetiche. La ciliegina sulla torta di quel capolavoro di nome “Rage In Eden”, in grado di competere alla pari con il più celebrato predecessore “Vienna”.
Serenade
Terminata la collaborazione con Conny Plank, è addirittura sua maestà Sir George Martin a sedersi in cabina di regia per il successivo “Quartet”, registrato interamente in digitale. Nonostante il successo del singolo “Hymn”, il disco sarà piuttosto snobbato, in generale, e anche da molti fan degli Ultravox. Da collocale sicuramente un gradino sotto i due predecessori, “Quartet” è in realtà un coraggioso compendio dell’elettropop ultravoxiano, che qui, in piena esplosione new romantic, lascia riaffiorare con più nettezza le tracce di quella esperienza Visage rivelatasi di fatto determinante per la nascita della seconda incarnazione della band (si ascolti, ad esempio, il singolo “Visions In Blue”). Questa serenata “in rhythm and swing”, intonata da un mellifluo e sornione Ure, può apparire un po’ manierista, ma sfoggia una rarefatta eleganza nella sua andatura sincopata, puntellata dagli uncini chitarristici del frontman che ingaggia nuovi esaltanti duelli strumentali con Currie, sublime, stavolta, al piano.
Mine For Life
“Quartet” abbandona quasi del tutto le suite strumentali che avevano fatto la fortuna della prima fase del nuovo corso-Ure, per concentrarsi su un genere assai ricercato di “canzone elettronica”. Nasce così anche la disperata “Mine For Life”, con le sue intriganti stratificazioni sonore, tra riff diretto e basso pulsante. Ure si esibisce in uno dei suoi migliori assoli di chitarra, ingaggiando un nuovo, formidabile corpo a corpo con le tastiere dell’amico Billy, sublimato nello splendido intermezzo che parte al minuto 2’33’’ e nobilita l’intero brano, esaudendo, per tutti noi, quei “forbidden desires” invocati nel testo. Troverà nuova linfa anche nella bella esecuzione dal vivo del live “Monument” (1983) in un tripudio di famigerati “oh oh oh ohh” ureiani.
When The Scream Subsides
La vera sorpresa di “Quartet” è però il brano più “rock” del lotto. L’incalzante “When The Scream Subsides” fonde sapientemente energia post-punk e vena melodica, imbroccando un ritmo ubriacante e irresistibile che accompagna il cantato di un Midge Ure sempre più padrone dei suoi (sempre notevoli) mezzi vocali. I ghirigori di synth cesellati con maestria da Currie e il basso pulsante di Chris Cross (che si concede qui anche un breve solo) devono cedere la scena al distorto assolo chitarristico del frontman, che taglia in due il brano, ben supportato dal drumming inesorabile di Cann che lo sostiene aggiungendosi anche ai vocals. Un pezzo destrutturato e in fuga dalla classica forma canzone: da far invidia a tante band che hanno tentato (invano) di riprodurre un certo suono eighties nel primo scorcio del Duemila.
Heart Of The Country
Abbandonate ormai del tutto le partiture strumentali elettroniche in favore di un raffinato formato canzone, gli Ultravox di “Lament” dimostrano di cavarsela alla grande anche nella nuova veste sonora, più in linea – corre l’anno 1984 – con l’emergente new pop dell’epoca, ma sempre distante anni luce dalle produzioni mainstream più stereotipate e patinate del periodo. Tra i loro gelidi spartiti sintetici, filtrano il calore del folk celtico e di melodie antiche, ma l’orizzonte resta angosciato, malinconico. Anche in questo bozzetto bucolico di “Heart Of The Country”, che lascia trasparire tutto l’amore per quei paesaggi da brughiera britannica esaltati poi nell’indimenticato video di “Lament”. Con le tastiere suadenti sullo sfondo a cullare l’ascoltatore in questa trasognata ode nostalgica.
Man Of Two Worlds
Il vero gioiello nascosto di “Lament” è però questo numero spiazzante, in cui Midge Ure si fa accompagnare dagli stupendi vocalizzi femminili (in gaelico) di Mae McKenna, perfetta con quel suo vibrato evocativo nel richiamare melodie ancestrali, sospese nel tempo. “Man Of Two Worlds” è un’impennata prodigiosa su tela elettronica, che decolla dopo l’intro classicamente epica, l’irruzione del basso cadenzato di Cross e le sferzate della chitarra – più distorta che mai – di uno Ure particolarmente a suo agio in questi brumosi paesaggi al confine col celtic-folk. Una meraviglia.
A Friend I Call Desire
E a corroborare il pathos, già intensissimo, di “Lament” (il disco della più straziante love-song post-atomica di sempre, “Dancing With Tears In My Eyes”), provvede anche il commiato finale di “A Friend I Call Desire”. Un altro episodio ad alto tasso emozionale, che si snoda su un magistrale riff di chitarra scolpito su una distesa di synth cupissimi, con Midge Ure ancora in stato di grazia al microfono, assecondato da nuovi vocals femminili per dare sfogo a tutto quel senso di sofferenza e di irrimediabile malinconia che gronda dai solchi del disco. Si potrebbe considerare il vero commiato degli Ultravox.
Dream On
Con “Lament”, infatti, Ure e compagni sembrano aver dato fondo a tutta la loro creatività nel congegnare eleganti canzoni pop-wave, permeate dello stesso spirito decadente e malinconico dei primi dischi del nuovo corso, ma depurate di quella visionaria ricerca elettronica che era rimasta il vero trait d’union tra il periodo Foxx e quello successivo. Su “U-Vox”, zavorrato da una produzione infelice, restano solo velleitari tentativi di ripetere l’esperimento, spingendo ulteriormente sul versante folk celtico, caro a Ure, nel solco di band britanniche in voga in quel periodo come Alarm e Big Country. Nel pasticcio generale, si salva almeno questa traccia atmosferica – rispolverata di recente nella colonna sonora dalla serie Netflix “Supersex” – in cui gli Ultravox sembrano ritrovare il magnetismo misterioso dei tempi d’oro, grazie a una gelida cornice sintetica, in cui svettano i ricami sinuosi delle tastiere e l’interpretazione sofferta di Ure, che di lì a poco avrebbe avviato la sua carriera solista. Con pochi picchi, a dire il vero, tra i quali ci piace ricordare il magico duetto con il bassista Mick Karn dei Japan in “After A Fashion”.
Rise
La storia degli Ultravox si chiude di fatto con quel passo falso del 1986 (seguito però da un tour di tutto rispetto, cui chi scrive ebbe la fortuna di assistere). Mentre Ure si avventura da solo, Currie, detentore del marchio, riforma il gruppo con altri musicisti per dar vita a due soprassedibili Lp (“Revelation” del 1993 e “Ingenuity” del 1996). Quindi, nel 2012 l’imprevedibile reunion di “Brilliant”: Billy Currie, Midge Ure e Chris Cross si ritrovano con tanta voglia ma poche idee. Un’occasione mancata, dunque, in cui però di brillante c’è almeno questa quinta traccia in scaletta che – come sottolinea Marco Bercella nella nostra recensione – “mette a fuoco l’obiettivo su robotizzazioni prossime all’era-‘Systems Of Romance’, in un curioso contatto con le odierne produzioni di Foxx, con uno di quei micidiali assoletti di synth che solo Currie sa fare e che alla prova degli ascolti si rivela come la migliore del lotto, per quanto Midge provi a minarla, senza riuscirvi, con un risparmiabile falsetto d’inciso”.
È la nostra chiusura del cerchio, sperando che voi possiate continuare a riaprirlo scoprendo altre prodezze, nascoste e non, della gloriosa saga degli Ultravox (in questa playlist Spotify la collezione integrale dei loro brani).
In memoria di Chris Allen Cross (Londra, 14 luglio 1952-25 marzo 2024)
Antonio Santini for SANREMO.FM