«Rhove? Lo devi intervistare e dici che non sai cosa aspettarti, sei un po’ preoccupato? Ma va’, ma figurati… È uno tranquillo, lui, ma tanto. Fidati». Può essere, sì, e l’amico comune con cui si è sviluppata questa conversazione è in effetti uno molto affidabile. Ma Rhove – a dare uno sguardo indistinto e superficiale alla faccenda – è uno dei tanti trapper combina-guai oggi in giro e assai in hype: un altro di quelli cioè che in teoria confermerebbe quanto l’ultima nidiata di stelline trappuse del microfono sia tanto popolare quanto, prima di tutto, una schiatta di ceffi cafonissimi non troppo raccomandabili (e anzi, forse sono popolari proprio perché ceffi cafoni, per i soliti meccanismi cannibali e guardoni del gusto popolare).
A confermare il tutto, un iter scolastico non da accanito primo della classe (le medie, poi gli studi alle superiori sempre nella natia Rho, in provincia di Milano, prima al Canizzaro poi al Clerici, studi mai completati gettando la spugna per mettersi a fare mille lavoretti tra cui l’idraulico) e anche la classica fulminea ascesa dal basso tipica dei fenomeni della trap – qualcuno direbbe miracolati, ma è più miracolato uno che dal nulla e con quasi nulla si guadagna un mare di play su YouTube o uno che viene cresciuto e coccolato dalle major perché si è deciso di investire su di lui a tutto spiano?
Sia come sia, con più di un occhio a Jul – marsigliese recordman di stream, in Francia e non solo – come riferimento stilistico, ecco che arriva Blanc Orange, a fine 2020, Rhove manco ventenne, ed è subito esplosione assurda di numeri. Questo e anche i singoli successivi (Provincia, Montpellier, Jungle, giusto per citarne alcuni, per non parlare di Shakerando che tra i soli Spotify e YouTube ha sfondato ad oggi abbondantemente i 200 milioni di play) diventano semplicemente ubiqui, anzi, scegliamo l’aggettivo giusto, virali, visto che sono perfetti come colonna sonora per le scenette da TikTok – e questo, signore e signori, oggi è un volano che conta assai.
Insomma, i luoghi comuni di base ci sono tutti per aspettarsi l’opzione-ceffo, la variante trapper-cafone-paracadutato-nel-successo. In realtà, osservazione numero uno, Rhove non ha mai avuto problemi con la legge, distinzione non propriamente indifferente rispetto ad altri suoi colleghi che i problemi li hanno avuti e li hanno eccome. E le svariate polemiche legate alle sue comparsate dal vivo e a certe mosse effettuate, polemiche che effettivamente non sono mancate in questi anni tanto da creare attorno a lui un’aria di pericolo e facinorosità, in un paio di occasioni sono state provocate da comportamenti non suoi bensì della sua crew.
Un paio invece sono stati gli episodi problematici con Samuel Roveda in arte Rhove effettivamente protagonista in prima persona, quello sì. Tipo il live interrotto perché il pubblico era troppo passivo e smunto con tanto di improperi verso il pubblico suddetto, con conseguente codazzo di polemiche sui social (Pinguini Tattici Nucleari in prima fila, ma non solo loro, a dire che il pubblico se è passivo va smosso e stimolato, non insultato: ci sta). O anche la faccenda della ragazza spinta sgarbatamente in piscina durante uno showcase (ma effettivamente è stata la ragazza stessa ad essersi detta divertita dalla cosa, poco dopo: quindi per qualsiasi persona di buon senso il caso era chiuso lì, anzi, non era manco da aprire).
È vero poi che con Rhove c’abbiamo avuto per la prima volta a che fare, almeno come osservazione giornalistica a distanza, in maniera – come dire – piuttosto frizzante: quando ha ben visto cioè di salire sul palco del Nameless Music Festival impennando su un motorino (in una giornata a modo suo epica, anche e soprattutto per altri motivi e altri trapper). Un display artistico più da ultimo dei tamarri che da primo degli artisti. Quindi, uno tranquillo tranquillo e da salotti non dev’essere, ‘sto qui. E ci stava restare guardinghi, se non proprio armati di pregiudizi.
Chiacchierando del più e del meno prima che il registratore si accenda, risulta subito chiaro come Samuel incontrato di persona abbia l’aria di essere davvero uno assai semplice e alla mano, uno insomma con cui anche azzardare qualche scambio diretto senza il rischio che s’incazzi o si sdegni o ti tiri una testata. Rispolveriamo l’episodio del motorino sul palco. La risposta è una gran risata e poi un naturalissimo «vabbé, è stato divertente, no?», esclamazione che riesce ad essere perfettamente equidistante rispetto sia all’abiura contrita che alla rivendicazione tamarra della bravata. Come a dire: è successo, ok, è stato divertente, mica poi si è fatto male qualcuno, no? Quindi andiamo avanti. Ok, andiamo avanti allora. Bene. E iniziamo la chiacchierata ufficiale: pronti, via. Sotto gli occhi vigili e apprensivi del rappresentante della major che ha preso sotto la sua ala Rhove, quelli più indifferenti e scazzati ma simpatici dei suoi amici, qualche stylist, qualche fotografo, qualche producer. Un sacco di gente.
«Penso che tutto questo un giorno servirà a qualcosa». A registratore ufficialmente acceso, dopo che gli chiediamo prima di tutto conto di questo faraonico dispiego di persone ed energie attorno a una mera intervista + servizio fotografico, un dispiego effettivamente notevole, questa è la risposta che sgorga spontanea. «Penso che tutto questo un giorno servirà a qualcosa». Al che controbattiamo subito: come un giorno? No, scusa: tu il successo lo stai inseguendo qui e ora, e gli investimenti e le professionalità che si sono radunati attorno a te il successo lo pretendono qui e ora. Guardati attorno. Su questa osservazione Rhove sorride pacifico, e si corregge: «Hai ragione. Servirà un giorno, sì: ma quel giorno è già oggi».
In effetti in questo momento Rhove vuole fare proprio uno step. Lo si caspice. Ed è concentratissimo nel farlo. Incredibilmente focalizzato e concentrato. Il pretesto, o un frutto concreto di tutto questo approccio rinnovato e cazzuto, è l’uscire con un album vero e proprio, Popolari, dopo una sequela di singoli di strepitoso e quasi inquietante successo (tipo: Shakerando l’avrete ad esempio sentita tutti ed ovunque, volenti o nolenti). Non si era detto che gli album sono morti, che non servono più e che basta uscire a getto più o meno continuo con singoli efficaci? E non era proprio una ascesa come la tua la dimostrazione algebrica di questo assunto? «Secondo me esiste un percorso verso la maturità, percorso che a un certo punto della carriera tu devi intraprendere. Una delle tappe di questo percorso è esprimere tutto quello che hai dentro all’interno di una release unica. Lo fai con vari mood e con varie forme, naturalmente, ma è bello poter mettere tutto dentro, tutto insieme».
Ecco, primo campanello d’allarme. Sentir subito parlare di «maturità» a) a un ragazzo di 22, 23 anni, b) a un trapper, c) a uno che saliva sul palco di uno dei più grandi festival italiani facendo i pennini in motorino, d) a uno che dà contro al proprio pubblico se non si gasa abbastanza, beh, fa strano. Ci crede davvero? O è una versione di comodo? Proviamo a stanarlo un po’ chiedendo: non è che la maturità può andare a scapito della freschezza, dell’immediatezza? Ti è venuto per caso questo dubbio? Prima, una pausa. Poi, la risposta. Molto posata. Molto giustamente paracula. «Sai cosa: credo che servano entrambe. Sia la maturità che la freschezza». Mmmh. «Solo con tutt’e due assieme puoi arrivare alla saggezza, cioè al miglior risultato possibile».
Spostare il discorso sul disco, sul suo concepimento e sulla sua lavorazione, porta a un educatissimo rosario di ringraziamenti: «Prima di tutto è stato fondamentale il lavoro del mio producer Madfingerz e di tutta la sua équipe, poi di Jacopo Pesce, il mio manager, infine in generale di tutti i miei che riescono a darmi sempre la vibe per scrivere quello che poi voi tutti ascolterete, e riescono così a facilitarmi il lavoro standomi accanto». Ma com’è starti accanto? «Diciamo che ci sono alti e bassi». Ok gli alti, ma come sono i bassi? «Le persone che ho fianco sono amici veri, e sanno sempre come prendermi, come trattarmi, come reagire nel modo giusto». Ok.
Va detto che quello che non manca in Popolari è il cliché, amatissimo dai trapper, sul fatto che fama e gran risultati siano armi a doppio taglio. Rhove in particolar modo insiste su un punto: in Italia il successo te lo perdonano zero. Siamo messi veramente così male, qui da noi? «Non so se in Italia stiamo peggio che da altri parti, perché non conosco bene la situazione in altri Paesi. Però è vero che più stai sotto i riflettori, più vieni visto e giudicato da più persone, che tu lo voglia o meno. Ma è un rischio che ti devi prendere». Come a dire: le cose stanno così, se ne parlo non è un lamento, è più una constatazione. Ragionevole. «Del resto un artista è giusto che si prenda le sue responsabilità e anche dei rischi. Perché alla fine qualsiasi cosa tu dica o faccia, provoca delle reazioni». Ragionevole (e onesto) anche questo. Riproviamo, però: reazioni che in Italia sono parecchio menose e difficili da sopportare? «Ultimamente i ragazzi più giovani anche da noi hanno una buona visione musicale». Tradotto: capiscono di più, sono più consapevoli, sparano meno cazzate e creano meno polemiche inutili.
Una cosa è certa, quindi: una nuova scena musicale che comprende sia artisti che pubblico attorno alla grande galassia urban c’è. «Sì, è così. E penso effettivamente di farne parte». Da protagonista, aggiungerei. «Ma io non sono ancora arrivato da nessuna parte. Però effettivamente quando ti ritrovi in studio con dei big che magari fino a poco tempo fa ti limitavi a guardare sul telefono o in concerto stando tra il pubblico, ecco, questo ti fa capire che forse non stai facendo un cattivo lavoro…».
Se questa frase vi sembra banale e prevedibile, in realtà va contestualizzata e – soprattutto – va messa in relazione a ciò che è stato fatto per Popolari. Coerentemente infatti con le abitudini di quasi tutta la scena rappusa/trappusa dell’ultimo decennio e passa, nell’album non mancano featuring di prestigio, ottima arma per moltiplicare gli stream raccogliendo dalle fanbase altrui più nutrite e crasse. C’è Guè (che fa il compitino), c’è Capo Plaza (nella paraculissima Alè subito promossa a singolo), c’è Sfera (in Amore mio, dove appare con il marsigliese Jul, ormai Sfera vuole infatti dimostrare di giocare solo nel campionato globale), c’è Emis Killa (appropriato ed efficace in Imputati), c’è Anna (nella già uscita e popolarissima ma trascurabile Petit fou fou, un perfetto congegno attira-stream); poi per il resto per dare un’altra ventata internazionale oltre a quella in quota Sfera Ebbasta c’è Oxlade in Soli e infine c’è uno da tenere d’occhio come Kuremino in Cosa sai di me. Un discreto traffico. Eppure, Popolari dà l’idea di essere costruito molto meno in vitro rispetto a parecchi dischi di colleghi dello stesso settore merceologico: se Rhove dice di averci messo dentro tutto se stesso, senza farsi teleguidare da nessuno, la cosa rischia di essere un po’ più realmente corretta e veritiera di altre occasioni (quasi nessun artista rap o trap ti dirà «ho buttato dentro mille feat così massimalizzo gli stream», quando invece quasi tutti fanno invece esattamente questo, pallottoliere alla mano, con la benedizione e l’incoraggiamento di etichetta e management). Un po’ di più. Non troppo. Ma un po’ sì.
C’è infatti una piccola perla, in Popolari, che senza l’uso alcun featuring riassume benissimo pregi, unicità e potenzialità di questo album e, in generale, di Rhove stesso: si chiama Doppia personalità, e se di per sé nonostante il titolo pirandelliano non tocca magari le complessità bergmaniane del Marracash di Persona, il suo tono multiforme e sofisticato tanto nel rap quanto nella parte sonora è una piacevolissima prospettiva su quello che potrebbe diventare, se crescesse bene, un certo tipo di scena, un certo giro di artisti. Essere meno legati alla ricetta del successo pronto-uso e più alla voglia di raccontare storie e immaginari scavando dentro di sé, con un lavoro serio sulle strutture narrative e sonore, potrebbe essere una via piuttosto feconda.
E sapete perché proprio Rhove potrebbe essere uno dei nomi su cui puntare, da questo punto di vista? Sentite qui. All’ennesima risposta corretta, equidistante, calma, cortese e ragionevole nella nostra conversazione proviamo a dirgli, un po’ scherzando un po’ no: oh Rhove, ma cosa si potrebbe fare o dire per farti perdere un po’ le staffe? «Nulla», sorride. «Stamattina, a inizio giornata, ho fatto un po’ di meditazione. Quindi ti assicuro che è impossibile farmi perdere la pazienza». C’è insomma in Samuel Roveda una consapevolezza sull’importanza di un lavoro serio di introspezione su di sé che, in altri suoi colleghi, in linea di massima non c’è (in qualche caso proprio manco da lontano, manco per sbaglio).
In più, come ci dice lui stesso, ed è la parte in cui si accalora e si scioglie di più, «il mondo urban viene spesso attaccato o comunque percepito in un certo modo, perché spesso ci sono formule precise utilizzate in certi testi che, magari, non vengono comprese da chi effettivamente non conosce un certo tipo di contesto, non parla cioè la stessa lingua. Io penso però che certi argomenti si possano affrontare anche in maniera positiva, cercando cioè di dare un messaggio un po’ più istruttivo».
Insomma: non solo raccontando le cose, e basta. Anche un po’ spiegandole. E provando a piegarle un po’. «Alla fine quello che voglio fare è aiutare persone come me ad avere una visione più aperta del mondo, e ad essere più focalizzate possibile su un obiettivo preciso. Poi chiaro: se sei quello che vuole mandare prima di tutto dei messaggi positivi, è facile che la gente pretenda da te per primo che tu sia perfetto. Ma nessuno è perfetto, mai. Anche noi artisti commettiamo errori. Io cerco però di staccarmi dagli errori, dalle tensioni che ci sono in giro: prendo e vado via, faccio viaggi, medito, pratico molto sport, cerco di portare le mie energie sempre più verso qualcosa che dia un certo tipo di benessere a me, ai miei amici, a tutti quelli che mi stanno intorno. L’importante insomma è essere coerenti con la propria storia e, al tempo stesso, continuare un proprio percorso di crescita. In maniera giusta, positiva».
E questa crescita come si misura? Col successo? Coi numeri? «Col fatto che ti venga riconosciuto che stai facendo le cose bene». Troppo vago, Rhove. Troppo vago. Parliamo onestamente di numeri: quanto peso gli dai? «Servono a creare competizione e, quando non è malsana, è anche giusto che la competizione ci sia». Ok. «A volte si da più attenzione ai numeri che alle canzoni in sé, vero». Ecco. Ma? «Ma è un po’ quello che succede sempre oggi. Alla fine, io credo che i numeri rispecchino comunque il valore dei pezzi, più o meno. Quindi è giusto che ci siano, che siano importanti». Una risposta un po’ da ragioniere. Ti ci vedi un po’ come tale? «Chissà, può darsi», sorride, senza nemmeno una increspatura di fastidio. Caspita. La meditazione funziona davvero.
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