Neanche Nostradamus avrebbe potuto immaginare un ritorno così potente dei CCCP nel 2024, prima col film Kissing Gorbaciov che documenta il loro viaggio (insieme a Litfiba e altre band) per suonare in Unione Sovietica nel 1989, poi con la mostra Felicitazioni! a Reggio Emilia, che ha visto 45 mila persone arrivare da tutta Italia per farsi travolgere dalla storia della band. E siccome tutto è il contrario di tutto quando si parla del gruppo di Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur, qualche tempo dopo la dichiarazione «non suoneremo», hanno suonato a Berlino, tre serate di concerti veri, punk, sudati e strafottenti e faranno un sacco di date d’estate in tutta Italia.
I CCCP sono un fenomeno artistico, di costume e società come direbbero in Rai negli anni ’80, ma tutto parte dalle canzoni. La voce papale di Ferretti, la batteria elettronica, la chitarra grattugia di Zamboni, i testi come non li ha mai scritti nessuno così, né prima né dopo. Letteratura post moderna del Novecento, in cui s’incontrano punk e clero, provocazione e poesia. La classifica qui sotto serve per i neofiti, per avere qualche riferimento dal quale partire e per i fan, per ascoltare di nuovo canzoni che hanno fatto la storia e pure la geografia.
Suoni che sembra vengano fuori da una registrazione amatoriale, fatta di sudore e di elettricità, in cui i CCCP nella formazione tipica del punk, basso-batteria-chitarra-voce, senza Fatur e Annarella, riescono a far deflagrare parole potentissime, preveggenti, che sembra già conoscano il futuro: “Siamo arrivati tardi, o forse troppo presto, comunque il nostro tempo non assomiglia al vostro, comunque il nostro tempo non assomiglia a voi”. Pensare che la canzone è un inedito suonato live nel 1983 e per ascoltarla per la prima volta abbiamo dovuto aspettare 40 anni. Una gran fortuna quel nastro lasciato lì a decantare.
Quando i CCCP suonarono questa canzone, che inizia con una versione synth punk dell’inno sovietico, a Mosca giusto qualche mese prima della caduta del blocco comunista, tutti i soldati si alzarono sull’attenti, mano sul cuore. Lì Ferretti e Zamboni si resero conto che non avrebbero mai più vissuto un momento del genere, che l’esperienza CCCP, che mischiava il socialismo emiliano con quello della madre Russia, non avrebbe potuto raggiungere quel picco (nel bene e nel male) mai più. L’inizio della fine del gruppo inizia da questo evento, datato 1989.
Depressione caspica
1990
L’anno successivo iniziò il nuovo decennio, quello che vide la fine degli anni ’80 glitter e anche di quelli off, di cui i CCCP erano i massimi esponenti. La band si allarga, entrano Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Ringo De Palma, Giorgio Canali, tutti dalle file dei Litfiba, altra band sgretolata col passaggio dagli ’80 ai ’90. La musica cambia, il punk rimane nell’attitudine ma non nella composizione, che si fa più stratificata, un art rock alternativo che troverà poi compimento negli album successivi a nome C.S.I. Questa è la canzone della disillusione, della disgregazione, della libertà come forma di disciplina. Una canzone sul passaggio, che ripete come in un mantra “no, non ora, non qui”. Potrebbe essere stata scritta oggi, per il presente.
Una canzone d’amore durante gli anni punk dei CCCP? Beh, non proprio, piuttosto il contrario. Nell’epoca in cui le pubblicità degli ’80 ci rincoglionivano di slogan tipo “mi ami, ma quanto mi ami?”, Ferretti tira fuori un testo che parla di sesso insoddisfacente e di mancanza di reale intimità, ma oltre al desiderio descrive la relazione come agente sabotatore di tranquillità, in cui bisogna mettersi in gioco a tutti i livelli. “Smettila di parlare, avvicinati un po’” nell’epoca di Tinder e delle relazioni che nascono sempre più spesso sulle app e sui social assume un significato ancora più potente.
Giovanni Lindo Ferretti, subito prima di fondare con Massimo Zamboni i CCCP, ha lavorato come operatore psichiatrico per cinque anni. Un’esperienza che lo ha toccato profondamente e che gli ha fatto conoscere il disagio mentale, facendogli accettare la vita nella sua complessità. Da lì, uno degli inni più lancinanti ed eccitanti dei CCCP in studio e dal vivo, con grandi performance da parte di Fatur e Annarella. Non era certo un argomento da tormentone la salute mentale negli anni ’80, questo la dice lunga su quanto stratificati e attuali fossero i CCCP.
Maciste contro tutti
1990
Di nuovo Epica Etica Etnica Pathos, l’album che chiude l’esperienza CCCP nel 1990, con uno dei suoi pezzi più rappresentativi, una cavalcata progressiva e spaziale che descrive la condizione di guerra, caos, vendetta e terrore, a cui la domanda “ma si può ascendere in virtù di una forza che è discendente?”, chiarisce il senso. Un brano che condanna consumismo e logiche televisive di quel presente, che oggi fanno ancora più rumore. Musicalmente, una delle canzoni più ricche dei CCCP.
Palestina (15/11/1988)
1989
Difficile trovare una canzone più attuale di questa, anche se si riferisce al 1988. Nonostante GLF abbia più volte dichiarato che le sue posizioni filo palestinesi siano cambiate nel corso degli anni, ascoltarla dà la dimensione di quanto sia infinito e terrificante il conflitto con Israele, di quanto sia tremendo subire l’occupazione forzata nelle zone che un tempo furono scenario delle storie narrate nel Vangelo. Non è certo un caso che la canzone sia attaccata a quella che viene sotto.
Una preghiera in cui si palesa del tutto la più grande contraddizione dei CCCP, che poi è anche la loro unicità: nel percorso che porta a Berlino, Mosca, all’Islam e alla Mongolia, la partenza è nell’Italia catto-comunista emiliana, di tradizione operaia e contadina, con lo sguardo verso il sol dell’avvenire ma da sempre timorata di Dio. Questa canzone è forse il gesto più punk di tutta la carriera dei CCCP: costringere alla preghiera il proprio pubblico decisamente di sinistra.
Una delle canzoni più amate dei CCCP, un manifesto di non conformità che usa i riferimenti alla prima, seconda, terza volta negli amplessi e utilizza lo slogan di una pubblicità per affermare la propria unicità e individualità. “In questo eterno presente che capire non sai, l’ultima volta non arriva mai”, grida Ferretti e noi con lui, mentre poghiamo sotto il palco a 20 come a 50 anni.
Tutto è il contrario di tutto, di nuovo, nella canzone-comizio in cui s’incontrano e si confutano l’ortodossia, Lenin, Mao Zedong, in cui si lodano e si cantano i perdenti: “Vali molto di più di un aumento economico, meriti molto di più di un posto garantito che non avrai, che non avrai, che non avrai”. Negli anni ’80 il posto garantito era un traguardo possibile della maggior parte delle persone. A pensarci oggi, che il posto fisso è una sorta di miraggio, viene da pensare che i CCCP ci abbiano visto lungo ancora una volta.
Poche canzoni della band sono musicalmente potenti come questa, sintetica e durissima, ai limiti dell’industriale eppure pop, con un testo poetico ed epico, che descrive un’Italia senza più riferimenti (Paolo XI o Berlinguer), in cui “qualcuno è post senza essere mai stato niente”. Un brano apocalittico che toglie il fiato, che usa metafore da giorno del giudizio, adatto alla fine di un’era. Mentre lo ascoltiamo, sembra descrivere il presente.
Probabilmente se vostra nonna o vostro zio che non hanno mai ascoltato niente di strano in vita loro conoscono una canzone scritta dai CCCP, è proprio questa. Ne sono state fatte mille cover semplicemente perché è un pezzo bellissimo e struggente, una richiesta d’amore che accetta tutto, l’ardore e le lacrime. Ha rischiato di non far parte del disco e poi, col tempo, è stata apprezzata da Sanremo ai talent in tv. E no, zio, non è una canzone di Gianna Nannini.
Se i CCCP fossero una band di ventenni di oggi, questa sarebbe la loro canzone più virale. Immaginiamo balletti Tik Tok velocizzati con le scritte “non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport”. Qualche brand avrebbe pagato un sacco di soldi per averlo come claim. C’è stato anche un momento in cui è diventata karaoke nel film Tutti giù per terra, pietra miliare della formazione di molti ragazzi degli anni ’90. Poche canzoni descrivono il disagio e l’apatia come questa, con parole semplici e una musica che non va più via dalla testa.
Quando la canzone inizia con la melodia suonata dalla tastiera di Magnelli è come se qualcosa si fermasse nello spazio e nel tempo. Chi ama i CCCP ne rimane estasiato come i veggenti che vedono le madonne, gli altri non possono che sciogliersi ascoltando il tema dell’addio, della fine. Una canzone di una dolcezza infinita, dedicata ad Annarella in persona, ma che sembra parlare anche alla storia dei CCCP. Quel “non dire una parola che non sia d’amore” spezza l’anima in due da trent’anni.
Dove tutto ha avuto inizio, la canzone icona della band, quella che durante i concerti berlinesi è stata introdotta da Andrea Scanzi col pubblico in rivolta, perché il brano vuole proprio quello. “Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi se tu ti proponessi di recitare te, Emilia paranoica”, il sunto perfetto della poetica dei CCCP: capire il luogo da dove si proviene e raccontarlo. Il basso che sembra un martello pneumatico, la chitarra una grattugia, la voce di Ferretti spiritata, Annarella che grida, e ieri come oggi tutta Italia si riconosce in questo pezzo di provincia. Aspettando un’emozione sempre più indefinibile.