Il 2 aprile del 1979 gli Skiantos salirono sul palco del palasport di Bologna. Erano una delle band più attese di un festival – il Bologna Rock organizzato dalla Harpo’s Bazar di Oderso Rubini – che vedeva in cartellone nomi lanciatissimi della scena cittadina come Gaznevada, Windopen e Confusional Quartet. Ma appunto Freak Antoni e soci, reduci dagli ottimi risconti del secondo album MONO tono, costituivano la punta di diamante di quel composito movimento new wave e punk, una celebrità che molto doveva alle esibizioni live, condotte spesso e volentieri con spirito provocatorio di stampo dada (celebri i lanci di ortaggi verso il pubblico). Quella sera però andarono oltre.
Salirono, appunto, sul palco, dove nel frattempo era stata allestita una sorta di cucina: tavolo, sedie, un frigo, il televisore, un piano cottura. Dopodiché, buttarono la pasta, che poi scolarono e mangiarono. Così. Senza suonare niente. Alle comprensibili e prevedibili rimostranze degli spettatori, Antoni rispose con l’epica frase: “Pubblico di merda!”.
Passata alla storia come Spaghetti Performance, si trattò di un tentativo di rottura dello schema, una provocazione bella e buona, non priva di sostanza e del resto ben leggibile: la band voleva sottrarsi alla prigionia del rituale, voleva spezzare il circuito gratificante/appagante della soddisfazione delle aspettative, fare atterrare sul palco una normalità resa eccezionale dalla sua decontestualizzazione, piuttosto che una eccezionalità resa banale dalla sua stereotipizzazione. Le cronache narrano che le suddette rimostranze del “pubblico di merda” andarono vicino a trasformarsi in rivolta. Il pubblico si sentì offeso, tradito, in quanto pubblico. Gli Skiantos avevano fatto centro.
La primissima cosa che ho pensato leggendo delle prime, irritate reazioni alla Vultures Listening Experience di Kanye West è, appunto, la Spaghetti Performance degli Skiantos. Qualche minuto dopo però ho capito che ero del tutto fuori strada. Il tempo cioè di capire di cosa si stava davvero parlando. Non ero granché informato su che tipo di “concerto” Ye avrebbe tenuto. Del resto, in generale non mi informo troppo su ciò che lo riguarda. Musicalmente ha smesso di interessarmi da un pezzo, e anche al massimo dell’interesse – altezza The Life Of Pablo – non che mi abbia mai fatto impazzire. Ma questi sono problemi miei. Ancora meno mi interessa ciò che ha fatto e fa in ambito extra-musicale, anche se non posso ignorare il peso – non ultimo politico – del personaggio. Ma insomma, bisogna scegliere con cura le cose di cui sbattersi le palle, e per quanto mi riguarda Mr. West lo è in pieno.
Devo ammettere però che questa Vultures Listening Experience mi ha intrigato. Prima ho raccolto commenti sui social, corroborati da una testimonianza quasi diretta (un amico di mia figlia), quindi ho letto con una certa avidità i report sui media. Ogni tanto mi fermavo a chiedermi: cosa sto facendo? Ma ho proseguito. E: mi sono fatto un’idea.
Diversamente dagli Skiantos a Bologna nel 1979, Ye e Ty Dolla $ign (suo partner in crime nel nuovo Vultures vol. 1) hanno dato al pubblico esattamente ciò che il pubblico voleva. Anche se forse quel pubblico – un pubblico che non definirei affatto “di merda”, ma non chiedetemi il motivo – non sapeva esattamente di volere proprio quello. Nella sua essenza, il concerto di una star tende a essere un evento, ovvero una circostanza che per un partecipante/spettatore acquista senso e valore dall’esserci e dal poterlo testimoniare.
Un esserci reso speciale dalla com-presenza: della star, degli ospiti (pare che siano stati segnalati Playboi Carti, Freddie Gibbs, Rich the Kid…), del parterre (le cronache riportano l’avvistamento, oltre che della compagna Bianca Censori in prima fila, di Ghali, Tananai, Max Pezzali, Emma Marrone, Fabio Rovazzi…) e – last but not least – del pubblico stesso, estemporaneamente raccolto a formare un popolo, strappato alla disforia quotidiana per consegnarlo a un’euforia episodica e (perciò) memorabile. Una com-presenza da testimoniare/certificare con i consueti mezzi: del resto le sharing opportunity sono il sale della vita, no?
In tutto ciò, l’idea classica – in modalità “quella di una volta, signora mia” – di concerto, ovvero e per farla breve di “esecuzione di pezzi dal vivo”, quale peso può avere? Quale metro di giudizio può rappresentare?
Ye e Ty hanno, in pratica, premuto play e fatto andare le canzoni del disco. Senza microfono, come è stato scritto. Ma non in playback: non avevano affatto la volontà di simulare l’atto del cantare o del suonare. Piuttosto, è stata una celebrazione dell’ascolto collettivo, o meglio una sua rappresentazione parossistica, ideale/irreale. Si sono mossi sul palco, hanno flexato sotto una specie di tubo su cui venivano proiettate immagini – da quel che ho capito – piuttosto epiche e inquietanti, flexate pure loro. West si è tenuto il passamontagna tutto il tempo così da lasciare col dubbio che fosse o non fosse lui, obliterando – per così dire – se stesso, ma alla fine (così pare) avrebbe mostrato il volto per dimostrare che, beh, era davvero lui. E per tutto il tempo la musica è uscita piena e pulita dall’impianto, dicono. Senza intoppi (meno male). E questo è quanto, più o meno.
In tutto ciò, il fatto che si sia parlato comunque di performance mi pare assai significativo. Perché non dovrebbe esserlo? In che misura un concerto per essere tale dovrebbe, oggi, dipendere da una esecuzione estemporanea di uno o più (cum-certare) musicisti? Questa misura casomai la fa il pubblico, la natura reale del suo desiderio. Nel caso di Ye il (suo) pubblico desiderante sarà pure rimasto sorpreso, spiazzato, ma in fondo ha avuto ciò che gli era stato promesso (la Listening Experience). Quel che più conta, ha avuto ciò che davvero desiderava: la com-presenza a un evento.
Che dire. Sono tempi formidabili, signora mia. Si fa presto a dire e, soprattutto, ad aggre-dire. Ecco, credo che anziché entrare a gamba tesa sulle caviglie di questa pratica così stridente con le nostre (“signora mia”) idee e abitudini ben sedimentate, e anziché – cattivoni – perculare chi ha speso fior di euro per quello che qualcuno ha ingenerosamente definito un “costosissimo karaoke”, dovremmo essere grati a Ye per averci dato la possibilità di riflettere su cosa significhi per noi – per noi che quei soldi per un listening party non li abbiamo e non li avremmo spesi – andare a un concerto. A partire dal prossimo concerto a cui andremo. Chiediamoci se il totale di quelle aspettative e desideri che ci ha fatto comprare il pass per il Primavera o per il Firenze Rock sia qualcosa in più della loro somma, o qualcosa di meno. Se quello che compriamo del concerto è ciò che verrà eseguito in quel frangente e che andrà a costituire comunque una listening experience. Oppure tutt’altro (vedi sopra). Chiediamoci cos’è e da dove proviene quello a cui stiamo obbedendo.
Detto questo, torno a fregarmene ampiamente di West e di tutto ciò che di molto importante probabilmente significa, un attimo prima di non significare nulla. Come ciò che ho pensato di lui, giusto il tempo di scrivere queste righe.
Antonio Santini for SANREMO.FM