Un bel “giro della vittoria”: così Usher Raymond IV sta celebrando il proprio presente storico, dall’alto di nove album di studio, milioni di dischi venduti in tutto il mondo e una manciata di hit che hanno marchiato a fuoco il panorama r&b degli anni Duemila.
Un risultato eccellente, pur non esattamente scontato; Usher aveva solo quindici anni quando la madre lo lasciò incautamente da solo a New York alle cure di Puff Daddy, esponendolo, ancora minorenne, a un circuito vizioso di sesso, droga e losche pratiche discografiche. Se la sua carriera ha sicuramente giovato di tali favori, l’esperienza personale dev’essere stata di tutt’altra pasta – Usher rimane guardingo nei confronti del suo ex-mentore, probabilmente temendo una scomoda rete d’implicazioni e chissà quali ricordi. Sta di fatto che, mentre il regno di Daddy sta lentamente andando sgretolandosi, lasciando presagire un nuovo scandalo all’altezza di R. Kelly e Bill Cosby, l’impassibile Usher sta riacchiappando lo scettro dell’attualità americana, grazie a un’apprezzata fermata al Tiny Desk, una serie di concerti a Las Vegas, nuove collaborazioni internazionali e, ciliegina sulla torta, l’onore alla carriera di condurre l’Halftime Show del Super Bowl 2024.
Non poteva certo perdere l’occasione di capitalizzare tale gigantesco momento: rilasciato indipendentemente attraverso il proprio marchio mega/gamma, il celebrativo “COMING HOME” compila un bignami delle attuali mode pop-r&b, per mostrarci l’autore nel suo naturale ruolo di versatile performer multiuso.
Tanti ospiti, stili e tracce in scaletta – addirittura venti, per sessantasei minuti di musica. Sono troppe, va detto, ma nell’era streaming l’album-compilation è il modo migliore per mettere a frutto l’attenzione del pubblico e “COMING HOME” fa le cose direttamente in maiuscolo.
Purtroppo non c’è molto da dire sul singolo “Good Good”, oltre al fornire una scusa per chiamare a sé i numeri di Summer Walker e 21 Savage, e ancor peggio fa “A-Town Girl”, pigra interpolazione della celebre hit di Billy Joel con la rapper-prezzemolino del momento, Latto. Anche la ballata pianistica in coppia con H.E.R., “Risk It All”, e la ninna-nanna trap di “Bop” sono ordinaria amministrazione, e lo stesso si può dire della scarsa immaginazione applicata su “Keep On Dancin’”, una traccia che, come da titolo, guarda alle stesse commistioni con la dance che fecero la fortuna commerciale dell’autore tanti anni fa.
Si fa poi in un attimo ad abusare del tema della sensualità, a partire dal modo in cui Usher tiene in mano quella pesca in copertina; la doppietta “On The Side” e “I’m The Party” è trita seduzione da San Valentino, certo efficace, ma inutilmente ripetitiva lungo il corso di una carriera ultra-ventennale. Molto meglio, a questo punto, impugnare l’arma dell’ironia: con i suoi accenni a svariate parti del corpo malcelatamente ingrossate, “BIG” è semplicemente ridicola, ma, tra la costruzione melodica e un ruggente arrangiamento d’ottoni, si candida comunque tra i momenti migliori dell’album.
Ma la scaletta è stata farcita all’orlo, Usher esplora e pavoneggia a piacimento; eccolo scivolare su avvolgenti partiture soul (“Please U”) e dentro torride prestazioni da navigato interprete a cuore aperto (“Luckiest Man”, l’incalzante ballata “Kissing Strangers”) o ancora misurarsi con inedite sonorità alternative (“Margiela”) e post-apocalittiche (“Cold Blooded”, non a caso lavorata assieme al produttore The-Dream). Molto d’effetto anche l’introspettivo pop-hop di “Room In A Room”. Trovano poi posto due buone commistioni col panorama afrobeat nell’apertura di “Coming Home” e nel cullante singolo “Ruin”, aiutate dai nigeriani Burna Boy e Pheelz rispettivamente. Immancabile la versione remix di “Standing Next To You” con la stella del k-pop, Jung Kook: un dorato disco-funk melodicamente accattivante, ricucito al dettaglio dalla camicia a fiori di Bruno Mars.
Impossibile, insomma, non trovare almeno un brano di proprio gradimento all’interno di “COMING HOME”, Usher è troppo preparato per lasciarsi andare al caso. Purtroppo, questo puntuale savoir faire levigato in ogni dettaglio è anche il suo tallone d’Achille: tra calcolate pose plastiche mai estranee all’adulazione femminile, lucenti falsetti avvolti nello zucchero filato e continui richiami a un certo Jackson, il rischio è di fornire la solita vellutata tappezzeria da strip club di lusso dove si guadagna bene faticando poco. Se volete comunque farvi un’idea sulle attuali tendenze dell’r&b americano, “COMING HOME” ne è una fotografia alquanto efficace.
12/02/2024
Antonio Santini for SANREMO.FM