C’è quest’idea, dura a morire, che fare progressive rock – anche adesso, a 50 anni suonati dalla nascita del filone – voglia dire necessariamente rifarsi ai classici: ai Genesis, agli Yes, se capita ai Pink Floyd o a qualche canterburiano. Una visione fuori dal tempo, e non soltanto dal nostro: lo era anche agli albori del genere. I Genesis si rifacevano ai Genesis? Agli Yes? Ai Pink Floyd? A Banks, Gabriel e soci piacevano i Beatles, la Motown, le filastrocche vittoriane e la musica classica.
Gli statunitensi Glass Beach, formazione post-emo (qualunque cosa significhi) di stanza a Seattle, vanno invece matti per Jeff Rosenstock e i 100 gecs, gli Animal Collective, i Dillinger Escape Plan, Zelda e Super Mario, il musical “Cats”. Per John Coltrane, Bo Burnham e il trotskismo interstellare di Juan Posadas. Non proprio le stesse predilezioni, insomma, ma lo spettro è paragonabilmente ampio. E comunque i Beatles piacciono anche a loro, ma questo in fin dei conti vale un po’ per tutti.
Fin dall’esordio, “The First Glass Beach Album” (2019), la band ha brillato per l’avventurosità del suono e delle composizioni. Brani ipersegmentati, caleidoscopici, capaci di sorprendere costantemente facendo incontrare generi e atmosfere disparatissime. Nella girandola di stimoli, a emergere erano in quel caso soprattutto il talento melodico e la personalità stilistica, votata a una sorta di impensabile crasi di My Chemical Romance, Electric Light Orchestra, Mars Volta e nuova coralità. L’attenzione generata dal disco tra chi segue le frontiere dell’emo aveva spinto in soli otto mesi dall’uscita l’etichetta bostoniana Run For Cover a mettere il gruppo sotto contratto e ripubblicare l’album.
Cinque anni dopo, è ancora Run For Cover a pubblicare il secondo ellepì, creatura per certi versi analoga e per altri distantissima dal precedente.
Come il primo album, “Plastic Death” è una cornucopia di stili e spunti riguardo alla cui inconciliabilità chiunque sarebbe stato pronto a scommettere (prima di dare un ascolto alle tracce, s’intende). Nella sua poliedricità, è anche un disco estremamente coeso come impronta: bastano pochi secondi di ciascun pezzo per riconoscerlo, inequivocabilmente, come figlio della penna dei Glass Beach – nessun’altra opzione possibile. Il mood del disco, però, è tutto un altro. Se il primo era vulcanico e solare, questo è decisamente più ombroso. È anche più variegato, sfumato. Ai fuochi d’artificio si sostituisce un incessante andirivieni di nuvole.
Per farla breve: “Classic J” McClendon (voce, chitarra, piano, theremin, missaggio, registrazione e principale firma delle composizioni) deve aver riascoltato parecchio i Radiohead. L’influenza di Yorke e Greenwood è evidente sia sull’interpretazione vocale, spesso mugugnante, che sulle scelte armoniche, che si allontanano dai fiammeggiamenti Fabloo fra Queen e power-pop e abbracciano invece l’intrigante malmostosità della band di Oxford.
Ma ridurre a un singolo denominatore le tredici tracce del disco è un’impresa fallimentare. Già farlo con una è faticoso, oltre che inutile. L’iniziale “Coelacanth” si snoda su sei minuti e rotti prendendosi tutto il tempo di attraversare sensazioni incrementali: apatia, pigrizia, curiosità, dedizione, ardore, tumulto. “200” di minuti ne copre tre, ma presenta un’escursione emotiva almeno paragonabile. Se poi ce ne fosse bisogno, “Slip Under The Door” chiarisce fra timbri quasi shoegaze e strilli metalcore che ogni intenzione di circoscrivere lo spettro stilistico è priva di speranze.
Meglio piuttosto cercare ulteriori fili conduttori, stilistici e tematici. Molteplici tracce svelano una connessione (volontaria o casuale?) col fronte jigsaw-pop dell’attuale galassia post-progressiva. “Motions”, “Puppy” e il proteiforme singolo “The CIA” sono oltre che alcuni degli episodi più luminosi del disco anche evoluzioni del tutto credibili del prog-pop camaleontico e frastagliato di Everything Everything e (per stare su compari post-emo) Foxing. I glissando vocali di “Cul-de-sac” e “Rare Animal”, d’altro canto, portano il sound a un passo dai compagni d’etichetta Crying – un’ottima notizia, per chi fosse da anni in attesa di un debito successore morale del loro splendido “Beyond The Fleeting Gales”.
Discutendo degli altrui contributi – perché il gruppo dopotutto è pur sempre un quartetto – ci si può soffermare sugli svolazzi corali di “Guitar Song”, gli onnipresenti incastri ritmici (particolarmente vistosi in “Coelacanth”, che alterna e sovrappone metri componendo di volta in volta pattern in 3, 4, 5, 6, 7…). Oppure notare i momenti in cui la presenza di ospiti si fa sentire, come con la marimba di “Whalefall” (che apre a una fulminante coda aphexiana), i fiati di “200” o gli intrecci violinistici del lento “The Killer” e della suite “Commatose”. Quest’ultimo brano è anche, a livello di testi, una delle poche incursioni romantiche del disco, che per il resto spazia dalle trincee della Prima Guerra Mondiale (“Coelacanth”) ai cargo cult (“200”), passando per “American Psycho” (“Motions”), Karl Jung e RD Laing (“Abyss Angel”) e il dirottamento del volo 305 della Northwest Orient Airlines nel 1971. Sempre in modo obliquo, per allusioni e immagini frammentarie. Contribuendo così alla turbinante indecifrabilità dell’album, perfetta tana del Bianconiglio per chi sia pronto a farsi rapire da enigmi e sorprese di un oceano musicale strabordante e mai banale.
04/02/2024
Daniel D`Amico for SANREMO.FM