La conversazione intorno ai Golden Globe 2024 costituisce la consacrazione definitiva, anche in Italia, di un fenomeno linguistico che presenta due caratteristiche piuttosto inusuali per un trend di origine socialmediale: non è offensivo o disturbante e si colloca in una lunga tradizione di rappresentazione cristiana del femminile.
Nei commenti ai post che fanno uso dell’immagine di personalità che vanno, iconograficamente, da Jennifer Lawrence a Da’Vine Joy Randolph, la parola più ricorrente, e spesso l’unica, era: “madre”, tutt’al più accompagnata dal possessivo “mia”.
In principio fu Veronica Ciccone, il cui status di popstar-vergine, autocertificato dalla celeberrima hit del 1984, pose la prima pietra di una lunga storia di figure pubbliche produttrici di cultura che figliavano come, appunto, una Madonna, cioè apparentemente senza peccato, traslando il dogma dell’Immacolata concezione in un simbolo impeccabile di fandom. Un simbolo perfetto anche perché valido a due vie: i fan erano generati e nutriti dalla divinità così come la divinità esisteva e persisteva grazie all’intensità del culto dei suoi fedeli. Col tempo artiste come Beyoncé e Rihanna hanno preso saldamente il posto sia di Madonna che, a loro volta, della Corredentrice, con la difficoltà in più di non aver scelto un nome d’arte di estrazione mariana.
Madonna e le altre hanno stabilito e diffuso il senso post-cristiano e post-genetico di una nuova definizione di maternità, che scaturiva non già dal Nuovo Testamento, ma dalla ballroom culture della New York degli anni ’60, ’70 e ’80, in cui tanti giovani esponenti della scena LGBTQ, avendo spesso perso o ricusato la loro struttura familiare originaria, ne trovavano una nuova nelle varie house con a capo una “mother”.
“Madre”, così inteso, è un inno alla maternità non biologica ma intellettuale e culturale. Comunica soprattutto riconoscenza, da parte dei “figli”, per le scelte artistiche ed esistenziali altrui che hanno influenzato le loro; specialmente se hanno anche contribuito a liberarli da schemi e pericoli sociali e ad affermare la propria identità.
Oggi “madre”, come aggettivo, usato senza articolo, viene impiegato dagli utenti del social web come grado supremo della manifestazione di entusiasmo nei confronti, in particolare, di un’attrice, di una musicista, di una creatrice di contenuti, di una influencer e, più in generale, di chiunque sia colpito dalla luce dei riflettori socialmediali e, per questo o nonostante questo, risulti comunque oggetto di devozione.
L’espressione si colloca più in alto (e in una sfera decisamente più intellettuale) anche rispetto a grandi classici del repertorio delle laudationes social quali: “Metti in discussione la mia omosessualità/eterosessualità” al sempreverde “Queen”, ove la metafora della sudditanza sociopolitica è superata dalla filiazione culturale e la riverenza dalla riconoscenza; e perfino a “Totale”, inteso, fino ad ora, come complimento definitivo e onnicomprensivo di tutti gli altri possibili.
Il trend è forse la lezione più eloquente che la cultura pop potesse impartire al membro del partito di Giorgia Meloni che, recentemente, ha tenuto a ricordare alle “sorelle d’Italia” che la massima aspirazione di una donna debba essere quella di “fare dei figli”. La maternità di un’artista (anche senza apostrofo) è proprio la maternità di chi non ha bisogno di generare e sfamare materialmente la prole per essere fonte di nutrimento extra-metabolico e, cosa ancora più importante, oggetto di rispetto e gratitudine, proprio perché questo tipo di filiazione è nient’affatto predestinata ma autodeterminata.
Piattaforme come Instagram, TikTok e Threads sono così divenute una sorta di anagrafe riformata, frutto di una politica di sublime semplificazione amministrativa, in cui sono i figli a registrare le madri e non viceversa, grazie al semplice atto di un commento, e in cui migliaia di rampolli possono condividere la stessa genitrice.
Post con l’icona di turno e i relativi commentari, che formano un tutt’uno estetico, somigliano a un allegro Museo Campano di Capua virtuale, dove le celeberrime statuette delle “Mater Matutae” sono sostituite da innumerevoli remake non scultorei e niente affatto monocromatici. Per via dei corsi e ricorsi della storia della rappresentazione dei rapporti tra un oggetto di culto e un soggetto adorante, quello che un tempo era simbolo di fecondità e filiazione fisiche, ammantate di tratti divini, oggi è manifesto poetico di una metagenitorialità laicissima e tempestata di like. Le figure femminili che, dal VI al II secolo avanti Cristo, venivano rappresentate con uno o più neonati posati sulle gambe, oggi, sui social, sono sommerse da piccole folle di fantolini digitali.
La rapper Anna, pur non avendo partorito, è madre. Elodie è madrissima. Myss Keta è madre certissima anche se non ha mai rivelato ufficialmente la sua identità, ma messo al mondo la sua visione di esso attraverso la musica. Quando, dal Forum di Assago, vengono postate le immagini di un duetto come quello tra Elodie e Annalisa, ecco commenti che sintetizzano benissimo questo concetto di maternità scevra da nessi biologici, da parte di utenti colti da un senso di figliolanza stereofonica: “ODDIO LE BELLISSIME QUELLA FOTO VI AMO SIETE LE MIE MAMME”.
Ciononostante la natura sa prendersi comunque le sue rivincite. È il caso, ad esempio, di quando Giulia Crossbow, creator particolarmente versata in videorecensioni smaliziate del cibo di strada, non è meno “mommy” se pubblica una foto di sé con la didascalia: “È tempo di espellere la merda”, riconducendo il suo pubblico a piaceri infantili e genuini, come testare quattro smash burger di fila e fronteggiarne poi le conseguenze digestive.
Ovviamente non deve essere il massimo, dopo essersi svegliate nel cuore della notte, per un certo numero di mesi, per allattare un figlio reale, vedersi poste dallo stesso sullo medesimo piano di una Noemi che, per intere estati, non ha fatto altro che mandargli makumbe. La soluzione, come dovrebbe essere più spesso sui media digitali, è sempre nel confronto ironico. Ci fu un appello di una madre reale che chiedeva a Taylor Swift, spiritosamente ma non troppo, di ridarle indietro il titolo; istanza cui Taylor Swift contropropose, magnificamente a tono, di accontentarsi del ruolo di zia matta.
Come molti altri trend nati da una nuova generazione in vena di distinguersi o non farsi capire dalle precedenti, come i meme o l’alfabeto farfallino, anche il mothering socialmediale presenta due rischi principali, altrettanto inevitabili. Il primo è quello di essere strumentalizzato dal marketing: non sono pochi ormai i casi di motherwashing da parte di aziende e personalità politiche, di cui alcune anche estremamente italiane.
Il secondo rischio, che va a braccetto col primo, è quello di essere hackerato dagli anziani, diventare mainstream e stravolgere il suo significato originario. “Madre” si sta tramutando in una semplice variante cool ai soliti apprezzamenti per un look o per un aspetto fisico di spicco. Il riferimento a oggetti inanimati non è ancora tanto diffuso in Italia, ma ha già preso saldamente piede altrove. Come la fontanella dell’acqua potabile di un aeroporto, che aveva fatto risparmiare la coda al bar e il costo di una bottiglietta d’acqua a questo utente. Altri esempi, fuori e dentro la metafora della nutrizione e dell’abbeveramento, sono costitutiti da: Big Mac particolarmente ben conditi, sigarette elettroniche capaci di ovviare al problema dell’eccessiva condensa del fumo, banconote rinvenute in tasche di cappotto poco usate.
Fino a che il passare del tempo o il sopraggiungere di una nuova tendenza non cancellerà del tutto questa accezione di maternità dalla faccia di Instagram – e dunque della terra – teniamoci stretto questo strano calendario liturgico, che prevede che ogni giorno sia la festa di una o più madri, se non di Dio, almeno di chiunque sappia esprimere ancora un sentimento di riconoscenza non solo verso chi ci ha messo al mondo, ma anche verso chi si ha insegnato a starci meglio.