Per un po’ non si sono parlati. Avevano la sensazione che il gruppo fosse diventato «un pastrocchio», che ci fosse meno magia e più mestiere. Perciò quando si sono rincontrati si sono interrogati sull’opportunità di continuare a fare musica dopo quasi 30 anni. Hanno risposto di sì. Perché sul palco tensioni e fratture si ricompongono. E perché hanno due o tre cose da dire sulla ‘Realtà aumentata’ in cui viviamo
Come si fa ad avere ancora voglia di stare assieme e fare musica assieme dopo quasi trent’anni senza correre il rischio della retorica? Quanto forte è stato il rischio di sfasciarsi e di mandarsi al diavolo, o semplicemente di non riconoscersi più e di non crederci più abbastanza? Come è nato e come poteva non nascere l’album Realtà aumentata in uscita il 12 gennaio, anticipato ad oggi da tre singoli?
Più che una intervista di routine, questa cover story coi Subsonica è una seduta collettiva da uno psicoterapeuta, giocata assieme a tre quinti della band: Samuel, Boosta, Max Casacci. Coi suoi momenti di cazzeggio, perché nell’alchimia della band il cazzeggio resta parte fondamentale, virati però subito dopo in analisi di peso, senza sconti e senza leggerezze. Perché i Subsonica hanno (ri)scoperto di essere importanti anche per se stessi. Oltre che per chi li segue fedelmente dagli anni ’90, sui palchi (e non negli stadi) di mezza Italia.
Intermezzo #1: una chiamata me la potevi fare
«È un disco questo che arriva dopo tanti anni di vita assieme, dopo che ognuno di noi si è messo in confronto con se stesso attraversando le proprie giungle creative musicali. Ed è un disco che arriva dopo una pandemia e dopo uno dei momenti più freddi dell’interazione fra di noi. Ammettiamolo. Per un lungo periodo non ci siamo proprio mai incrociati e…».
«Non ci siamo mai incrociati? Ci credo che non ci siamo mai incrociati, c’era il lockdown!».
«Sì, ma…».
«Come diavolo volevi che ci incrociassimo?!».
«Eh. Però almeno una chiamata in tutti quei mesi me la potevi fare…».
«Oh, ero sul balcone a suonare. Non potevo».
«La verità è che questo album arriva dopo che, per la prima volta, ci siamo trovati fra di noi per un motivo ben preciso. Cioè per chiederci: ma allora raga, che facciamo? Vale la pena continuare o no?». Inizio d’intervista col botto. Non ci gira attorno, Samuel, iniziando a parlare di Realtà aumentata. La lunga chiacchierata con lui, Boosta e Max Casacci (Vicio e Ninja assenti giustificati) inizia entrando proprio in medias res. Ma d’altro canto la forza dell’esperienza – e il fatto che fra intervistatore ed intervistato ci si conosca da più di vent’anni – permette anche di andare dritto al punto, senza girarci troppo attorno.
«Sì, Samuel, ha detto una cosa importante. E vera», conferma Max. Continuando: «Ci siamo davvero interrogati sull’opportunità di far proseguire questa storia o meno. Sì. Quasi trent’anni di attività hanno fatto segnare tutta una serie di picchi e di cadute, e hanno anche generato esigenze di confronto individuale – e non più di gruppo – col mondo esterno. Il paradosso infatti è che proprio il procedere in gruppo, che è una cosa che ti protegge molto anche se lì per lì non te ne rendi conto, ha potenziato individualmente, in un modo anche difficile da percepire per chi ne era toccato, la voglia di esprimersi, quindi di giocare in prima persona. È stato quindi inevitabile e naturale, ma al tempo stesso traumatico per i nostri assetti interni come gruppo, che ciascuno a un certo punto avesse voluto toccare con mano quale fosse la differenza tra proporsi al pubblico in prima persona e il farlo schermati da un involucro, quello della band, che in certi momenti più che un organismo e una protezione finiva con il sembrare un meccanismo e un obbligo».
«Effettivamente stavamo arrivando a un capitolo non dico di rottura dei rapporti personali, quello magari no, ma sicuramente un capitolo importante sull’esistenza o meno della band», si accoda Boosta. «Ma proprio quando ti metti di fronte alla prospettiva e soprattutto alla libertà di esserci o non esserci in un progetto collettivo, di fare o non fare, la risposta che poi arriva una volta che l’accetti ti impone di metterti in gioco davvero, di mettere in gioco tutto, anche le tue questioni di ego. Nel momento in cui hai la massima possibilità di scegliere se essere parte o meno di una storia come quella dei Subsonica e di portarla avanti, se decidi alla fine di farlo e di andare avanti capisci che devi ragionare per il bene collettivo, sennò tanto valeva darci un taglio. Devi ragionare per quello che puoi mettere nel gruppo, più ancora che per quello pensi di poter fare per te. La sfida diventa questa».
Pausa. Per poi riprendere: «In alcuni periodi della nostra vita, i Subsonica sono stati un po’ un pastrocchio, un drink venuto male; però in generale credo che dell’alchimia fra di noi ci sia sempre stata, anche nei momenti meno fortunati. Non per fare il fricchettone, eh, ma credo che davvero questo gruppo così com’è abbia quella dote rara di poter tirare fuori un qualcosa che è più della somma dei singoli elementi messi assieme. Poi oh, la musica non è una scienza esatta. Per niente. Certe volte non riesci a realizzare quello che vorresti, quello che avresti nelle intenzioni migliori. Ogni tanto è magia, ma spesso è lavoro: e la magia non sempre succede, non sempre scatta, pensare che lo faccia sempre sarebbe mentire a se stessi e alle persone che ti ascoltano. Però se ci pensi, dopo quasi trent’anni siamo ancora qui a parlare di Subsonica, a ridere, a scherzare, ad avere voglia di fare musica ad alto volume; e forse allora un po’ di magia c’è davvero, massì».
Intermezzo #2: chiusi in una stanza
«Momenti in cui siamo stati assieme per forza, anche quando non ne potevamo più? Beh, diciamo che ognuno ha la propria interpretazione dei fatti…».
«Io non faccio testo. Io ho iniziato ad abbandonare il gruppo già dal primo disco».
«No dai, da Microchip emozionale. Non prima».
«Hai ragione: dal secondo, va bene».
«Ecco».
«Ma l’avrò lasciato almeno sette, otto volte! Anzi, proprio per una questione di onestà intellettuale nei confronti di me stesso, da Microchip emozionale in poi almeno una volta ad album ho dovuto lasciare il gruppo. Sì. Giuro! Perché state ridendo, scusate? È vero!».
«Ma poi non l’hai mai fatto…».
«L’ho fatto dentro di me».
«Eeeeh…».
«E noi non ce ne siamo manco accorti: figurati».
«Ma perché mi chiudevo in una stanza. In silenzio. Come fa Vicio».
«Lo hanno già detto i miei soci prima», dice Samuel. «A un certo punto gli assetti interni nostri non erano in equilibrio fra di loro: questo perché si era finiti in qualche caso a ragionare più individualmente che collettivamente. Vero. Quando parte questa dinamica, succede che alla fine ciascuno tira più forte dalla propria parte per non soccombere rispetto agli altri; e allora, pur di far stare in piedi le cose e farle in qualche modo funzionare, devi lavorare un po’ di mestiere».
«8 è stato un po’ così, ammettiamolo», interviene Max. «Vero», conferma Samuel, «quello è un disco dove senti davvero tanto che a un certo punto siamo dovuti intervenire, come dire, un po’ con il mestiere, per fare stare in piedi tutto. Un altro lavoro imperfetto, col senno di poi, è stato Eden: ancora oggi credo sia un disco con una miriade di spunti e idee interessanti, assemblati però in modo confuso. C’era troppa roba. Un disco invece nostro bellissimo, per me di gran lunga uno dei nostri più belli anche se chissà per quale motivo alla fine non è che abbia funzionato chissà quanto, o almeno non quanto secondo me meritava, è L’eclissi. Forse è uscito nel momento sbagliato».
«Ma in tutte queste analisi retrospettive critiche c’è un elefante nella stanza», interviene Max, «ed è però un elefante positivo. Perché a sentirci parlare ora, in effetti sembra quasi che a un certo punto avessimo dovuto onorare degli impegni controvoglia, senza avere in realtà nulla da dire. Ma se dopo ventisei, ventisette, ventotto anni siamo ancora qua tutti insieme a parlare di una cosa chiamata Subsonica, beh, il motivo è soprattutto uno, ed è un bel motivo: il palco. La dimensione del palco. Il luogo dove si sono sempre trasfigurati tutti i profili, tutte le individualità, dando vita a una vera e propria dimensione parallela in grado di ricomporre ogni tensione ed ogni frattura. Anche nei momenti più difficili, come ad esempio 8, a un certo punto abbiamo sempre pensato: però dai, tutto questo serve comunque ad aprire un capitolo nuovo che farà sì che torneremo finalmente a salire su un palco. E quindi a provare delle cose che riusciamo a provare soltanto, lì nella nostre vite, e da nessun’altra parte. Se non ti è mai capitato, beh, è difficile da spiegare: sono sensazioni fisiche e spirituali completamente fuori scala. Diciamo che posso quasi capire i miliardari che fanno cose assurde alla ricerca di emozioni uniche, tipo infilarsi in una navicella sparata nello spazio, alla Elon Musk. Quasi, eh! Però ecco, quando sali sul palco in un palazzetto, si spengono le luci e senti il boato di migliaia di persone che sono lì per te, anche le maggiori preoccupazioni e i dubbi che puoi esserti portato dietro, beh, all’improvviso spariscono, provi solo emozione e felicità pura. E tutto quello che ti può portare lì, a provare quelle cose lì, finisce con l’avere un senso. Poi certe volte l’interazione nel lavorare ad un disco può essere favorevole, altre invece sfavorevole, per carità, ma…».
Max si prende una pausa, lasciando quasi la frase a metà; ma poi, riprende. «Per 8 ad esempio non abbiamo quasi mai lavorato tutti assieme, almeno nella prima parte del processo di creazione. Col senno di poi, un segnale chiaro. È stato difficile. Abbiamo dovuto lavorare molto, dopo, ad album già strutturato, dando vita a qualcosa di molto rifinito e rilavorato, qualcosa dove – ammettiamolo – abbiamo anche usato un po’ di sano mestiere per venirne fuori, un po’ di trucchi e soluzioni ben consolidate con l’esperienza. Poi per carità, dentro 8 anche oggi a risentirlo c’è più del solo mestiere, ma è un disco che ha avuto realmente senso solo nel momento in cui ci ha permesso di salire, ancora una volta, sul palco. Facendolo per un tour per cui poi sono state spese parole importanti dagli addetti al settore, tipo “I Subsonica sono la miglior live band italiana”».
Intermezzo #3: la miglior band live, o trap, italiana
«Noi la miglior live band italiana? Eddai, non siamo certo noi che possiamo dirlo».
«Però possiamo dire che siamo i più bravi a suonare la musica dei Subsonica: questo almeno sì».
«Occhio però che ho visto in giro delle cover band nostre davvero in gamba…».
«Vero, vero. Io ne ho viste almeno un paio proprio notevoli».
«Ma ce la possiamo giocare con loro, dai».
«Volendo sì, diciamo però con umiltà che non siamo ancora abbastanza bravi a suonare la trap. Questo possiamo dirlo?».
«Anche se…».
«Il punto sta a monte», prova a prendere in mano le redini del discorso Samuel, «Facciamo una musica che è davvero nostra, che è davvero particolare, almeno come live band, e questo per un motivo ben preciso: perché ci siamo formati artisticamente nel momento di massimo successo dei dj e di un certo tipo di visione musicale. Pensaci. Nei nostri concerti è raro vedere un assolo; è raro che la voce si prenda certe licenze, è sempre molto funzionale al pezzo; e il suono del rullante è allo stesso livello della linea vocale, sempre. Insomma, siamo stati in grado di elaborare non da dj ma con gli strumenti e con una formazione abbastanza tradizionale come organico per un live la tessitura ma direi anche la vera e propria ideologia di un certo tipo di musica elettronica e della scena che rappresenta. In questo, siamo tra i migliori. Qui sì. A suonare la trap, invece no». Pausa. «O almeno, ancora no», chiosa ridendo Samuel.
Pungolato sul fatto che la club culture sia comunque di per sé una entità molto modaiola, o comunque particolarmente attenta proprio costituzionalmente al suono-del-momento, e che a un certo punto magari anche i Subsonica siano stati attenti a infilare la dubstep quando era figo infilare la dubstep, giusto per fare un esempio, dopo aver fatto lo stesso a inizio carriera con house e drum’n’bass, Max Casacci si irrigidisce: «Guarda che avremmo potuto cavalcare l’hype del ritorno degli anni ’90, che ora sta funzionando parecchio nella club culture, no? Figurati se non potevamo farlo! E per certi versi, ne avremmo avuto titolo anche più di altri… Invece ce ne siamo ben guardati. In questo album sono stati più semmai gli incidenti. Ti faccio un esempio molto concreto: per giorni durante le sessioni in studio Samuel continuava a ripetere tutto entusiasta di una esperienza che lo aveva visto coinvolto in una serata afro qualche settimana prima, e insisteva allora nel voler mettere elementi afro in un pezzo, fino a quando Boosta ha sbroccato e ha tirato un urlo nel microfono, proprio quell’urlo che è diventato l’elemento caratterizzante di Pugno di sabbia, il primo singolo. Capisci? Capisci quanto ha contato il caso, e non il calcolo? Quello che posso assicurare è che in questo album non c’è stata mai la ricerca scientifica del suono che può funzionare, di quello che ti fa sembrare figo e sintonizzato sulle mode più sofisticate, o quelle più di successo». Mai? «Mai. Non che sia sbagliato in sé tentare di farlo: nulla esclude che possano venire fuori cose interessanti. Tipo appunto, provare a dare una nostra interpretazione della trap: perché no? Prima o poi potremmo farlo, d’altro canto noi abbiamo sempre avuto una componente black e hip hop ben presente, quindi alla fine poteva avere un senso. Ma farlo adesso avrebbe generato probabilmente troppi equivoci. Avrebbe fatto pensare delle cose di noi e delle nostre intenzioni non vere».
Riprende Samuel: «Oltre a essere nati e cresciuti nel periodo di maggior successo dell’elettronica, abbiamo anche fatto in tempo a respirare quel periodo storico in cui il crossover non era una cosa naturale e inevitabile come adesso, dove anche i festival d’elettronica più avanguardisti – vedi C2C – combinano pop e sperimentazione e stili diversi se non addirittura opposti, ma era invece una precisa scelta di campo, anche rischiosa e capace di alienarti delle simpatie. C’era chi voleva essere purista, e c’era chi ancora voleva combinare le cose. Mi ricordo ancora di una mattina in cui io mi ero svegliato con in testa l’idea di fare qualcosa che fosse simile alla versione dei Delta V di Se telefonando, Boosta iniziò a lavorarci sopra con l’elettronica cercando comunque delle progressioni armoniche in cui potessi trovarmi bene; portammo tutto a Max, e lui ci mise dentro il funk vero e proprio, che era l’ultima componente che avevamo in testa quando abbiamo iniziato a pensare al pezzo, nemmeno eravamo sfiorati dall’idea. Ecco: Strade è nata così. È bello che ancora noialtri si sia in grado di generare e di infilarci in dinamiche di questo tipo».
«La scintilla per Realtà aumentata proprio nella sua interezza come album è nata anch’essa in modo sbagliato», prosegue Max. «Eravamo già in ritardo su tutto, se mai avessimo voluto mettere mano a un decimo album dei Subsonica, e appunto come dicevamo all’inizio la questione era aperta: avevamo già fatto scadere il contratto con la label. Poteva finire tutto lì. In fondo Mentale strumentale – che era stata la nostra ultima uscita ufficiale – avrebbe potuto essere un commiato perfetto: un album strano, solo strumentale, difficile, ma comunque a modo suo una bella soluzione per chiudere definitivamente un’esperienza che è sempre stata un po’ un’anomalia nel mondo del pop. In mezzo a questi dubbi e in mezzo a questa consapevolezza di essere clamorosamente indietro caso mai avessimo voluto dare un nuovo capitolo a questa esperienza Subsonica, è arrivata la proposta del regista Stefano Sollima per lavorare alla colonna sonora di un suo nuovo film. Il buon senso suggeriva di declinare, almeno finché non risolvevamo i nostri dubbi; ma proprio per questo abbiamo deciso di accettare la proposta, controintuitivamente. Ed è stata una fortuna. Perché lo stesso Sollima non aveva ancora le idee chiarissime su cosa gli fosse realmente necessario per il film, quindi ci ha chiesto di suonare, suonare e basta, di mettere giù delle idee senza un filo logico e un obiettivo preciso, con l’idea che poi riascoltando il materiale prodotto sarebbe diventato un po’ più chiaro sia a noi che a lui in che direzione andare. E così è stato. Ha funzionato. Sia per noi che per lui».
«Senza darci da subito una direzione precisa, abbiamo riscoperto il piacere di suonare assieme e di sperimentare assieme: senza essere schiavi delle costruzione di ritornelli che funzionano, di strofe ben scandite, di strutture ben delineate. E non è stato solo quello, in realtà il frutto di questo lavoro si è fatto sentire anche molto più nel concreto: una delle canzoni più definite del disco, come Universo, nasce proprio da quelle sessioni lì. Tutto parte infatti da un nucleo sonoro che Boosta aveva proposto per la colonna sonora, tra l’altro per uno dei momenti più significativi del film, ispirandosi un po’ a Steve Reich, quindi qualcosa di molto scarno, minimale; solo che io e Samuel c’abbiamo a un certo punto messo mano, per provare a fissarci sopra una melodia, stando però molto attenti a cercare le note in maniera molto poco calcolata e invece quasi casuale – per vedere l’effetto che poteva venire fuori nel momento in cui decidevi di non essere troppo legato alla tonalità. Tra un esperimento e l’altro, è saltato fuori qualcosa che ci ha convinto e ci siamo detti: ma mettiamoci anche una componente un po’ dance, che però non sia la solita dance alla Subsonica. Il risultato è una traccia che è un po’ Reich, un po’ Tenco, un po’ Björk, un po’ Bicep, e una traccia che proprio nel non cercare di essere alla Subsonica alla fine è venuta fuori come qualcosa di molto riconoscibilmente nostro, però ecco, in modo naturale, non calcolato».
Intermezzo #4: Subsonica, i più esperti e navigati fra i giovani leoni o i più giovani fra i grandi maestri?
«Siamo i più esperti e i più navigati fra i musicisti della nuova generazione o i più giovani fra i vecchi maestri consolidati? Ma veramente ci stai chiedendo questo? Mamma mia, che domanda da Marzullo che hai tirato fuori…».
«Chi risponde?».
«Rispondi tu Samu, l’hai detto tu che le domande banali sono le tue…».
«Ah. Me la potete ripetere, per favore?».
«Ecco, vedi? Non l’hai manco capita…».
«Ma sì che l’ho capita. Per rispondere: allora, credo sia meglio essere i più giovani fra i maestri, e non il contrario. Quindi, la prima ipotesi».
«Guarda che nella domanda quella come ipotesi era la seconda…».
«Davvero?».
«Sincronizziamo gli orologi. Perché qua da Marzullo stiamo passando direttamente a Lino Banfi…».
Prende in mano la situazione Boosta. «Dopo un’ora che stiamo parlando, ho capito una volta di più che parlare di musica in realtà è difficile. A maggior ragione se è la tua. Farla è invece molto più semplice. Poi chiaro, è utile fermarsi ogni tanto e ragionare, rendersi conto ad esempio che un conto è scrivere per se stessi, un conto è farlo per una band. Io quando sto scrivendo per i Subsonica se ci penso mi rendo conto che per anni certe soluzioni alla fine le evitavo perché so che a Max non piacciono, oppure certe linee vocali le scartavo perché sapevo che non andavano bene per Samuel. Stavolta invece è successo che abbiamo messo tutti un foglio bianco davanti a noi e siamo partiti da zero, lavorando insieme, in simultanea, guardandoci in faccia, senza farci troppi problemi, ma al tempo stesso con la consapevolezza che stavamo scrivendo non per noi stessi ma per i Subsonica».
Prende la parola Samuel: «Ad esempio in scaletta c’è un brano come Nessuna colpa, che avevo scritto qualche anno fa e che ho pensato inizialmente di tenere per me, mi sembrava non c’entrasse molto con la strada che stavamo prendendo per questo album. Invece alla fine è materiale che ho messo in condivisione: non solo ha funzionato ed è stato ben accolto, è stata anzi forse la traccia dove più forte è stata l’interazione, almeno per quanto riguarda la parte testuale con Max e con lo scrittore ed amico Luca Ragagnin, che dà sempre ci dà una mano fondamentale per i testi».
«Che poi non sembra nemmeno la voce di Samuel in quel brano, vero?», interviene Max. Vero. Verissimo. «Tra la linea vocale di Samuel nel provino e quello che stavamo scrivendo c’era una discrepanza abbastanza evidente. Allora, tanto per sperimentare un po’, abbiamo infilato la voce di Samuel del provino in questione in un software, per abbassare la tonalità: “Ma sai che così non suona neanche male? Teniamola! Con tutta la musica vocoderizzata che c’è in giro voglio proprio vedere se qualcuno si azzarda a dirci che così non si può fare…”. Ma di nuovo: non è seguire una moda, non è che ora visto che tutti usano il vocoder anche noi ci mettiamo a modificare la voce. Noi siamo cresciuti coi primi dischi di Fatboy Slim che con le voci pitchate ci faceva addirittura i ritornelli, quindi ecco, è una soluzione che è sempre stata nel nostro corredo genetico. Proprio partendo da tutte queste situazioni particolari, siamo stati più sereni nel mettere maggiormente una “impronta Subsonica” in Nessuna colpa al momento di rifinirlo: perché ciò che ci stava alla base era atipico di suo, era un insieme di casualità, di improbabilità e di giochi, quindi non c’era il rischio di fare qualcosa di troppo ovvio e prevedibile, qualcosa di un po’ retorico ed autocelebrativo. Nemmeno volendo».
A proposito di retorica e celebrazione. In Italia essere maestri consolidati nel campo del pop, giovani o non giovani, significa oggi prima di tutto una cosa: arrivare a suonare negli stadi. Cosa che però ai Subsonica ancora non è successa. Succederà? Dopo un attimo di silenzio e di sguardi incrociati, prende la parola Boosta: «Non lo so. Non è più, come dire, un obiettivo. E se mai lo fosse stato, credo che l’abbiamo lasciato per strada ormai tanto tempo fa. Non voglio fare professioni di falsa umiltà, né voglio fare lo splendido che ti spiega che per non fare la fine di Icaro devi stare attento a non avvicinarti troppo ad un sole che potrebbe in realtà bruciarti. Credo che la risposta più intelligente e al tempo stesso più onesta e questa questione sia: noi siamo una band di successo, sì, ma essere di successo non significa per forza sempre essere anche molto popolari. Mi pare che invece le generazioni più giovani sempre più considerino le due cose come perfettamente sovrapposte. Non lo sono, invece. Il vero successo è essere ancora qui dopo ventisette, ventotto anni a fare quello che ci piace. Stiamo facendo uscire un disco in cui crediamo. Stiamo organizzando un tour nei palazzetti con la convinzione che sarà lo spettacolo più bello che abbiamo mai fatto e, se permettete, di tour abbastanza graziosi e carini negli anni ne abbiamo anche fatti».
«Quindi sì: noi siamo una band di successo. Ma lo siamo non perché siamo così popolari da poter suonare in uno stadio, ma perché abbiamo la possibilità di continuare a fare quello che amiamo e di poterlo fare stando esattamente lì dove è il caso che stiamo. Ci teniamo stretti il profilo che ci siamo costruiti in tutti questi anni, e ce lo godiamo. La popolarità invece spesso fai fatica a godertela, per mille motivi. Noi abbiamo scelto altro. E ne siamo felici».