Qual è il nucleo del suono del rock? La batteria che pesta? Il basso che pompa? Anche, ma anzitutto c’è lo strumento principe: la chitarra elettrica. Chitarra, distorsore e amplificatore a palla: ecco la ricetta perfetta del rock, con l’immagine dello strumento che sin dall’inizio va oltre il suo mero uso. Quel manico è sia fallo che mitra, il chitarrista lo impugna sparando sesso e note. È il simbolo, il mezzo del cambiamento. “This Machine Kills Fascists” aveva fatto scrivere sul legno della cassa armonica della sua chitarra Woody Guthrie, e lui suonava un’acustica, figuriamoci cosa si poteva fare con un’elettrica.
È possibile pensare a un rock che faccia a meno della chitarra? C’è chi ci ha provato. Verso la fine dei ’60, arriva il poco più che ventenne Keith Emerson a far piazza pulita di tutte le corde che eccedessero le quattro. Il basso era infatti l’unico strumento ammesso nella sua band, i Nice. Per il resto c’era un batterista che spaziava tra jazz e psichedelia e poi Emerson, impegnato a uno strumento che mai si sarebbe detto adatto alla furia di quello stile: le tastiere.
Fino all’avvento di Emerson, le testiere erano usate in quello che oggi chiamiamo classic rock come discreto tappeto e molti le detestavano per il potere di abbassare la temperatura della musica, smorzarne la passione. Emerson non suonava l’organo Hammond, lo violentava. Lo scuoteva, ci saltava sopra, lo rovesciava, arrivava addirittura a pugnalarlo. E l’organo gemeva, si contorceva in rantoli lancinanti prima di ricominciare a ruggire sotto le mani del suo padrone. In poco tempo Emerson è diventato il Jimi Hendrix delle tastiere e molti hanno dovuto ammettere che poteva esistere una forma di rock che facesse a meno della chitarra.
Visto il successo dei Nice, nel corso del decennio successivo le formazioni che hanno fatto a meno della sei corde sono proliferate, il tutto mentre Led Zeppelin, Black Sabbath e altri dragoni dell’hard rock sembravano ribadire che no, non può esistere il rock senza chitarre. Ma nel momento d’oro del prog, quando tutti gli sconvolgimenti sonori sembravano possibili, in molti ci hanno provato con risultati eccellenti da tutti i punti di vista. Ascoltando i dieci campioni del no guitar sound elencati sotto (in ordine di apparizione sulle scene) nessuno potrà lamentarsi della mancanza delle chitarre.
Soft Machine
L’uomo chiave dei Soft Machine è Mike Ratledge, il primo a usare il fuzz nell’organo per creare una delle principali caratteristiche del Canterbury sound, senza dimenticare l’apporto di Hugh Hopper al basso distorto. Questo sopratutto nei primi due album, veri capisaldi psych. Poi, mentre la musica si sposterà verso il jazz rock, Ratledge prediligerà l’uso del piano elettrico e il contributo dei fiatisti Elton Dean e Karl Jenkins sarà sempre maggiore. Quando infine, con Bundles, i Softs decideranno di inserire la chitarra, la scelta cadrà su un perfetto sconosciuto destinato a fare parlare parecchio di sé: Allan Holdsworth.
Egg
Dave Stewart degli Egg (poi in Hatfield & The North, National Health, ecc) per certi versi è l’anti-Emerson: tanto è esagerato il primo, quanto è calibrato il secondo. Questo mettendo in ogni caso in campo una tecnica sopraffina al piano e all’organo, senza bisogno d’altro se non l’apporto della sezione ritmica. Negli album degli Egg, Stewart propende per ricalcare in parte il suono saturo di Mike Ratledge aggiungendo i colori tenui tipici del Canterbury sound.
Emerson, Lake & Palmer
Negli ELP Keith Emerson ci dà dentro con un uso della tecnologia all’avanguardia in fatto di tastiere & correlati (anche Carl Palmer si farà contagiare collegando la batteria al Moog). Per non fare sentire la mancanza della chitarra l’armamentario-base di Emerson prevede un pianoforte, un gigantesco Moog modulare e il consueto Hammond da seviziare. La cosa che però più lo avvicinerà all’immagine e alle movenze dei chitarristi sarà l’uso, durante le rappresentazioni di Pictures at an Exhibition, di una sorta di asta elettronica collegata al sintetizzatore grazie alla quale abbandona la sua postazione e dà vita a una serie di suoni lancinanti simulando un atto sessuale. A onor del vero è necessario segnalare che saltuariamente Lake farà uso della sei corde con ELP rendendo indimenticabili gli arpeggi di Lucky Man, In the Beginning, The Sage o Still… You Turn Me On, e offrirà alcuni discreti assoli di elettrica, vedi la Battelfield di Tarkus o la 1st Impression di Karn Evil 9.
Quatermass
I Quatermass sono riusciti a iscriversi tra i gruppi fondamentali dell’hard rock senza avere mai usato la chitarra. Potenza del basso di John Gustafson e soprattutto del devastante Hammond di Pete Robinson, suonato, nel loro unico album del 1970, con una potenza e una tecnica tali da fare impallidire qualsiasi guitar hero.
Dr. Z
Band tra le più misteriose mai apparse, i Dr. Z sono un trio capitanato dal tastierista/cantante Keith Keyes. Nel loro unico album, Three Parts to My Soul (1971) Keyes si da un sacco da fare all’organo, al piano e, soprattutto, al clavicembalo. È il suono arcano di questo strumento che troneggia in un disco ammantato di colori spettrali.
Mad Curry
Provengono dal Belgio e schierano tastiere, batteria, basso, sax e voce. La cantante Viona Westra è una potenza di espressività, sorta di Janis Joplin prog, e il suono scattante e nervoso schizza tra jazz scomposto e rock torrido. Nell’unico album (omonimo) pubblicato nel 1971 il gruppo riempie gli spazi senza bisogno di particolari virtuosismi, semplicemente lavorando sugli incastri ritmici tra tastiere e fiati.
Le Orme
Il successo dei Nice e degli ELP colpisce anche i musicisti italiani che provano a dedicarsi al suono keyboard-oriented. Nelle Orme il mago delle tastiere è Tony Pagliuca che non possiede le doti tecniche di un Emerson, ma sa dire la sua con gusto melodico, non disdegnando parti più impetuose all’Hammond: Cemento armato su Collage (1971) ne è una prova. In seguito il suono del gruppo si farà sempre più ricco grazie all’innesto del Mellotron, dei sintetizzatori e del pianoforte suonato dal produttore Giampiero Reverberi. Come in ELP il bassista-cantante (in questo caso Aldo Tagliapietra) imbraccerà talvolta la chitarra acustica in brani come Gioco di bimba, Felona o Amico di ieri.
The Trip
Partiti come formazione italo-inglese con tanto di chitarrista (il primo è stato nientemeno che Ritchie Blackmore), i Trip nel 1972 rimangono in tre e danno alla luce uno dei must del prog italiano: Atlantide. Qui le tastiere di Joe Vescovi sono protagoniste assolute e si muovono tra spunti emersoniani, sprazzi psichedelici e un gusto classicheggiante di scuola italiana, riuscendo, con varie sonorità, a visualizzare l’apocalisse del continente sommerso. Per ricreare certi effetti chitarristici Vescovi sfoggia anche uno strepitoso wah-wah sull’organo.
Greenslade
Prendono il nome da Dave Greenslade, tastierista già in forza nei Colosseum, che si unisce a un altro tastierista, Dave Lawson, proveniente dai Web e dai Samurai, al batterista Andy McCulloch (nei King Crimson di Island) e al bassista Tony Reeves, anche lui ex Colosseum. Le doppie tastiere promettono fuochi d’artificio, ma in realtà dipingono spesso paesaggi soffusi, morbidi toni jazzati e atmosfere malinconiche.
Island
Dalla Svizzera tedesca gli Island registrano il loro unico album, Pictures, in Italia nel 1977, con la produzione di Claudio Fabi. Il suono è debitore sopratutto dei Van Der Graaf Generator, con tastiere e sax protagonisti assoluti nell’evocare un’oscurità catacombale, con forti richiami alle atmosfere care a Lovecraft.
Antonio Santini for SANREMO.FM