Jacopo Incani ci racconta in esclusiva il suo nuovo, monumentale “IRA”, un progetto in cui porta ancora di più alle estreme conseguenze il suo lavoro compositivo. Un’opera monumentale di quasi due ore, composta da 17 lunghi brani dove la sua voce si dipana in nuovi linguaggi e lunghe distese sonore. Un disco potente e ambizioso, ostico e suggestivo, difficile anche solo da classificare e spiegare. Ma superate le prime salite, “IRA” e il suo autore non lesinano argomenti di discussione e stimoli: ecco la nostra intervista.Non ti nascondo la mia difficoltà: spesso le interviste cercano di presentare e capire un disco. Credo che applicare questa “procedura” a “IRA” sia un peccato, poiché forse svilisce la potenza di un’opera che l’ascoltatore dovrebbe solo accogliere e vivere nella maniera più libera possibile…
Questo tipo di considerazione si sta facendo spesso in questi giorni da parte dei tuoi colleghi. È una cosa che mi fa piacere. Mi stranisce un po’, perché per quanto mi riguarda ho fatto un disco, ho lavorato sul materiale che avevo, sulle idee, ovviamente conscio del fatto che le dimensioni e le caratteristiche del lavoro lo avrebbero reso atipico, anomalo, nel contesto italiano. Particolare, insolito? Da un lato questo tipo di reazione ovviamente mi rende felice. La cosa che mi fa piacere di più, però, è percepire che si stia generando attorno a questo lavoro un’attenzione che non viene riservata a tanti altri. Non viene trattato come un disco di canzoni come ne escono tutti i giorni.
Ma fortunatamente qualche argomento su cui soffermarsi non manca: iniziamo dalla copertina! A me ha ricordato a primo impatto “The Lighthouse” di Robert Eggers: ci racconti dell’aspetto grafico di “IRA”?
E’ in elenco, ma non ho ancora visto “The Lighthouse”. Avevo chiaro fin dal principio che “IRA” sarebbe stato un disco – per assurdo – in bianco e nero. Un disco estremamente ricco di colori, musicalmente parlando. Però la sensazione che volevo, e che in generale mi ha sempre trasmesso questo materiale, era una sensazione cupa, drammatica. Ciò non vuol dire che questa sia l’unica sensazione presente, tutt’altro: il disco è pieno di aperture e momenti emotivamente differenti. Però per me è sempre stato quello, anche perché era molto difficile racchiudere in un colore o in un insieme di colori quest’album. La soluzione più giusta era questo nero con la fisionomia di un corpo che ne emergeva. La copertina ritrae un uomo completamente nudo e mi è sembrato in fin dei conti che fosse la scelta migliore per restituire e rappresentare simbolicamente la solitudine all’interno di una moltitudine.
Il lavoro sulla grafica è stato veramente lungo. Siamo passati attraverso tantissime fasi e scelte, poi ritrattate fra di noi. Alla fine siamo arrivati a scegliere quello scatto lì che non è tecnicamente perfetto, anzi, inizialmente lo avevamo messo tra i possibili esclusi. Di quello scatto però mi piace il suo carattere di estemporaneità. Sembra uno scatto rubato. E’ impossibile collocare il soggetto, non si riesce a capire se si tratti di una foto scattata di notte o all’interno di uno spazio chiuso e buio, se si tratti di uno scatto fatto in uno spazio naturale o in una prigione di cemento. Non si capisce se si tratti di uno scatto caldo o freddo, se quell’uomo sia nudo perché ha caldo o perché è costretto a esserlo. L’ambiguità ne determina una grande forza narrativa e simbolica, e quindi alla fine abbiamo deciso per questo. Ci è sembrata la cosa più giusta non mettere alcuna scritta sopra. Lasciare solo quest’immagine così neutra e così narrativa, creando per il retro del vinile una sorta di manifesto che lo fa assomigliare a una qualche forma di rivendicazione.
La scelta di rendere la tua voce strumento tra gli strumenti, di rendere quasi sempre incomprensibili i testi cantati sempre in lingue diverse rende “IRA” ancora più enigmatico, persino mistico. C’è forse una certa sfiducia nelle possibilità di comunicare qualcosa ai tuoi ascoltatori tramite il cantato?
No, anzi, esattamente l’opposto: c’è una profonda fiducia nella comunicazione. Se in me c’è sfiducia, o comunque rifiuto, è nei confronti dell’idea ormai consolidatasi e imperante della comunicazione come un veicolo puramente funzionale. Siamo abituati, sia quando parliamo di dischi sia nel nostro quotidiano, che la comunicazione debba unicamente assolvere a una funzione. Una canzone è bella se funziona, ma il concetto di funzione necessita di uno scopo. Qualcosa funziona nel momento in cui assolve allo scopo preposto. L’abat-jour funziona perché mi permette di avere la luce quando il mondo è al buio, la forchetta perché mi permette di mangiare il cibo. Un’opera d’arte, passami questo termine brutale che andrebbe giustificato prima di essere utilizzato, non assolve a questo tipo di scopo, non ha questo tipo di funzione, di ruolo. La comunicazione è la stessa cosa, comunicare è qualcosa di molto più stratificato. Credo che comunicare l’incapacità di comunicare determini dei livelli narrativi, interpretativi. “IRA” è estremamente comunicativo proprio perché parte dal presupposto di rinunciare a una certa idea di comunicazione. Non sono un cantautore che scrive dei testi e usa una chitarra o un piano per accompagnarli. Io faccio dei dischi, lavoro sulla musica e ogni elemento, ogni mia scelta estetica, timbrica, sonora concorre alla definizione di una narrazione, nella quale i testi sono solo uno degli attori in campo. Sono estremamente fiducioso nei confronti della comunicazione e sono convinto che renderla complessa – che non significa renderla complicata, ma semplicemente stratificata – sia una maniera per mostrarlo.
L’ordine della tracklist segue l’ordine di “nascita” dei brani o li hai disposti seguendo un ulteriore criterio?
Non saprei neanche dirti in quale ordine sono nati i brani. Molti, per esempio, li ho ottenuti accorpando dei frammenti scritti in tempi molto lontani fra loro. “Priel”, “Ashes”, “Prison”, “Cri”, “Hajar”, “Foule”: sono tutti brani che mettono insieme frammenti nati in momenti diversi, e quindi, banalmente, che facevano parte di sessioni Ableton (è il software che io uso per appuntare le idee) diverse. Il primo brano, “Hiver”, l’avevo iniziato a scrivere come traccia conclusiva di “DIE” ma non riuscivo a completarlo. Ci fu un tempo in cui ero convinto che “DIE” necessitasse di una canzone di chiusura dopo “Mandria”. Stesi un po’ di bozze che però non riuscivo a completare: a un certo punto ho detto che evidentemente il disco nella mia testa era già chiuso. Ho accettato l’idea che in realtà desideravo una “non conclusione” e fra le bozze appuntate allora c’era un giro di piano che è diventato “Hiver”. E magicamente, nel momento in cui l’ho ripresa a distanza di anni, ho scritto subito una linea vocale, l’ho strutturata, ed è diventata l’apertura di “IRA”.
Ascoltando “IRA” si avverte una distanza notevole da “DIE”. Se si pensa a “La macarena su Roma” si ha l’impressione di parlare di due musicisti e persino uomini completamente diversi. È rimasto qualcosa dell’Incani del 2010? Riesci a fare un bilancio artistico di questi dieci anni?
Tra “La Macarena su Roma” e “DIE” io non ho fatto null’altro che… lavorare a “DIE”. Questo per varie ragioni. “La Macarena su Roma” era andato bene, ma era andato bene per una ristretta cerchia di appassionati, quindi non mi arrivava alcuna richiesta di collaborazione. Ho fatto molto poco, ho lavorato in due spettacoli teatrali per una compagnia di amici, ho avuto pochissime occasioni per scrivere della musica. In più, all’epoca non avevo né la strumentazione né le competenze tecniche necessarie per lavorare con facilità in casa a del materiale nuovo. La fase di lavoro su “DIE” che feci da solo, prima di iniziare a lavorarci con Bruno Germano, fu quasi drammatica: avevo in testa delle soluzioni musicali che non riuscivo tecnicamente a riprodurre. Non sapevo banalmente distinguere 100 hertz da un kilohertz, non riuscivo a fare dei suoni di basso che corrispondessero a ciò che avevo in mente. Da lì in poi ho iniziato a lavorare con Bruno, l’ho osservato tantissimo. Abbiamo passato dei mesi in studio, mi sono fatto spiegare un sacco di cose e ho acquisito delle competenze che mi hanno poi permesso di lavorare tanto in casa. Quindi, dopo “DIE”, mi sono ritrovato a scrivere una quantità di musica enorme, come non avevo davvero mai fatto. In due mesi ho scritto dieci volte tutto quello che avevo scritto in tutto il resto della mia vita. In “IRA” sono finite due ore di musica, ma ne ho da parte il doppio, se non cinque volte tanto.
E’ successo questo, in questi anni, ho scritto tantissimo. Questa iper-produttività, dove sono rientrate varie colonne sonore, sonorizzazioni, produzioni artistiche e collaborazioni con altri, mi ha dato una spinta enorme a sviluppare determinate idee che fino a quel momento erano solo potenziali, immaginate. Sicuramente, di quello che ero dieci anni fa rimane l’esperienza acquisita. Oggi sembra strano parlarne, il mondo musicale che viviamo è completamente differente, ma io prima di pubblicare il mio primo disco ho fatto più o meno 250 concerti ovunque, nella stragrande maggioranza dei casi gratis, spostandomi da solo in treno carico come un mulo, mentre facevo anche il call center nel frattempo. Dall’inizio del 2009 all’estate del 2012 ho fatto più o meno 250 concerti. Quella cosa li ti forgia, e per come sono fatto io, fa sì che la tua fronte dura da mulo sardo diventi ancora più dura. Nel momento in cui ho avuto l’idea di fare “IRA”, non ho avuto alcun timore a riguardo. Non ho avuto la paura di pubblicare un disco chiaramente fuori dalle logiche dello streaming, in questo momento totalizzanti, purtroppo. Quindi cosa rimane di me? Rimane la spinta a fare unicamente quello che mi piace e che mi interessa fare, e il rifiuto di fare qualsiasi cosa non sia in linea con questa scelta.
“IRA” fa sembrare un capolavoro del cantautorato italiano recente come “DIE” un germoglio, con quest’ultima pubblicazione nella parte della gigantesca quercia. In maniera ironica, un disco del genere non rischia di mettere in ombra il tuo stesso lavoro?
Mi è capitato di riascoltare da poco “DIE” poiché dobbiamo prepararne dei brani per il tour di ques’estate. Ormai lo guardo con la distanza che mi porta – come sempre capita – a dire: “Questo brano lo potevo arrangiare meglio, questo suono non va mica bene, il mixaggio è un po’ sbilanciato in questa direzione etc etc”. Ma è tutto normale. Tra un mese, o un anno, farò lo stesso tipo di valutazione su “IRA”. Ci sono dei pezzi di “DIE” che secondo me sono ancora possenti e che mi piacciono ancora al 100% e che sento miei in ogni loro soluzione musicale: direi soprattutto “Tanca”, che mi sembra sia il brano più vicino a “IRA”. Non avrei potuto assolutamente fare “IRA” se non fossi passato da “DIE”, ma il salto che ho dovuto fare per passare dalla “Macarena” a “DIE” è stato comunque enorme. E prima della pubblicazione di “DIE” non c’era alcuna certezza del buon esito dell’operazione. Mi sono ritrovato con questo disco, abbiamo iniziato a ragionare su come promuoverlo e per noi era un grande punto interrogativo. Ero certo della qualità del lavoro fatto, di come ci avevo lavorato, del tempo dedicato, però, guardandoci intorno, ci rendevamo conto che quel disco era in controtendenza totale con ciò che all’epoca stava iniziando a delinearsi come quella roba tremenda che è l’It-Pop, o quella cosa che viene incoscientemente chiamata spesso indie. Una cosa che mi fa attorcigliare le budella, perché in buona sostanza è musica leggera italiana che come sempre rinnova i proprio suoni per essere un po’ al passo con i dettami del mercato, nulla di diverso da quello che è sempre accaduto. Però quando “DIE” è uscito, era assolutamente in controtendenza rispetto alla poetica generale che si stava delineando. Non era un disco che parlava di sentimenti, o quantomeno non come purtroppo ci siamo abituati a sentire, sentimenti trattati come lo farebbe un adolescente. Non è un disco di canzoni strutturate in maniera pateticamente prevedibile, non è un disco mixato con la voce altissima e super-radiofonica etc. etc.
Sì, probabilmente “DIE” è un germoglio rispetto a “IRA”, però in quel momento lì non lo era affatto, era coraggioso. Poi il fatto che sia andato bene e nel tempo sedimentato mi fa molto piacere e non lo do affatto per scontato, non lo era all’epoca e non lo è neanche oggi. È una cosa che continua un po’ a sorprendermi.
In una nostra precedente intervista ti sei definito “un compositore senza legami particolari con uno specifico strumento” e “IRA” infatti ci conferma la totalità del tuo approccio compositivo. Sapendo del profondo legame tra la musica, i musicisti con cui è stata composta, e quanto tutto ciò sia connesso alla presentazione live nei teatri, il prossimo passo sarà direttamente un’opera teatrale che non passerà neanche su disco?
No. “IRA” nella mia testa non è assolutamente un’opera come la si poteva intendere nel prog anni 70, con il libretto consegnato all’ingresso. L’esecuzione nei teatri è stata una scelta dettata dalla necessità. Mi spiego meglio: a un certo punto ho capito che avrei voluto presentare “IRA” dal vivo suonandolo integralmente con i musicisti sui quali l’ho modellato dettagliatamente e che con me hanno lavorato per anni con una tenacia e una pazienza per la quale non smetterò mai di ringraziarli. Mi interessava suonarlo integralmente con loro e nel momento in cui ho parlato con le persone con cui lavoro da sempre, quindi Panico Concerti, ho detto: “Ok, voglio fare questa cosa”. E loro mi hanno detto: “Benissimo, dove la facciamo?”. Il quesito era: club o teatri? I club mi piacciono tantissimo: l’idea del pubblico in piedi, vicino, ammassato, investito da un volume notevole. Poi ci siamo resi conto che era veramente difficile suonare un disco di due ore: noi lo sapevamo che durava due ore, il pubblico che avrebbe comprato il biglietto no. Quindi a un certo punto abbiamo deciso di fare questa cosa e suonarla nei teatri perché avremmo potuto dare la possibilità alle persone di godere di quello che stavamo facendo senza la fatica che interviene dopo un’ora che si è in piedi o il chiacchiericcio che inevitabilmente ti si piazza nelle orecchie. E’ stata una scelta dettata da queste ragioni qui e dalla volontà anche di avere un maggiore controllo sulla qualità sonora. Ora, anche nei club si possono fare ovviamente concerti con una grandissima qualità sonora, però i club sono tutti molti diversi uno dall’altro: avremmo dovuto a ogni concerto resettare e ripartire, non dico da capo, ma comunque molto indietro. Invece i teatri sono pensati per suonare più o meno nella stessa maniera. Quindi la scelta dei teatri è stata questa, io non ho in mente delle opere teatrali, ho in mente delle opere musicali, dei dischi. No, il prossimo passo non sarà quello e non so quale possa essere. Non ho ancora iniziato a pensarci, per quanto abbia già delle idee chiare su quello che sarà il prossimo disco, però non credo sarà un’opera teatrale.
Negli anni, e in concomitanza della pubblicazione di “IRA”, hai avuto modo di parlare delle tue influenze musicali, letterarie e artistiche a tutto tondo e di come siano entrate nelle tue composizioni: ma c’è un passaggio di “IRA” influenzato invece da un fatto di cronaca, un evento storico celato tra quei brani?
No. Io ho avuto idea di scrivere questo disco a partire dalla suggestione del linguaggio e la suggestione del linguaggio è venuta con la stesura delle melodie. Le melodie le scrivo sempre molto velocemente. Per ogni aspetto musicale io devo faticare tanto, perché non sono né un chitarrista virtuoso né un pianista virtuoso né un compositore che conosce l’armonia dettagliatamente: la conosco, la so armeggiare ma non sono uno “studiato”, ecco. Ogni cosa mi costa una certa fatica. L’unica cosa che obbiettivamente riesco a fare con una estrema velocità è scrivere le melodie. Il metodo che ormai ho sviluppato da “Tanca” in poi mi porta a scrivere delle melodie che non solo non hanno una forma da canzone, ma sono delle sequenze di movimenti vocali che si spostano in alto, lateralmente, in basso. Quando le scrivo vengono fuori già delle cose che indirizzano la mia fantasia. Per “DIE” fu il ripetere costantemente determinate parole, sulle quali poi lavorai e sviluppai tutti i testi. Nel caso di “IRA”, a un certo punto, mi sono reso conto che avevo tutte le melodie che suonavano diverse rispetto a quelle che avevo scritto fino ad ora e che si portavano appresso dei suoni che non mi erano familiari. Ciò mi ha suggerito un senso di solitudine, distanza, smarrimento, difficoltà nell’esprimersi, nel farsi comprendere. In generale, un senso di estraneità.
Ci ho lavorato sopra e capito che stavo ricercando la narrazione di una traversata, di un viaggio. E’ stato innanzitutto questo, poi ovviamente quando si ha a che fare con un archetipo di questo tipo i riferimenti possono essere tanto nella tradizione biblica, quanto nella letteratura americana del Novecento, così come la cronaca di questi stessi giorni. Perché è appunto un archetipo, così come lo era quello di “DIE”: l’uomo in mezzo al mare, la donna che lo aspetta a terra può essere qualsiasi cosa. Può essere Ulisse o la storia di un qualsiasi migrante, o di un pescatore, un naufrago. Entrambe sono la storia di qualsiasi uomo, la sensazione di estraneità, distanza, attraversata, allontanamento progressivo dal luogo in cui si è nati, fisico o simbolico che sia, è la storia propria di ogni essere vivente.
Alle luce delle “difficoltà” di ascolto e dell’essere fuori dalle logiche commerciali, non si rischia che un lavoro così bello, potente e rivoluzionario venga apprezzato solo da chi è già fan di Iosonouncane?
Se mi preoccupassi di questo e cercassi di fare qualcosa che insegue le stime di mercato del momento, farei il più grande errore della mia vita, anche perché non c’è una ricetta che certifichi la possibilità di spaccare in radio o su Spotify, come si è soliti dire oggi. Mi sembra di assistere a una corsa all’oro che riesce veramente a pochissimi e catapulta nella tristezza tutti gli altri. Non mi preoccupo di questa cosa qui, dall’altra parte ti dico anche che quando ho fatto “DIE”, il quesito era esattamente lo stesso: “Non ti preoccupa il fatto che un disco così di quaranta minuti, di sei brani lunghi – e che poi non è stato passato dalle radio generaliste, non se ne è parlato in tv, non ci sono stati servizi al tg su “DIE” – non ti preoccupa che questa cosa possa confinarti a un pubblico di nicchia?”. E i risultati sono stati gli opposti: al primo concerto che ho fatto per “DIE” c’erano 150 persone a ingresso gratuito e all’ultimo che ho fatto ce ne erano 1.500 a pagamento. Il mio percorso dimostra esattamente il contrario, però, ti ripeto, è una cosa della quale non mi preoccupo e non devo assolutamente preoccuparmi. Se facessi questo, interverrebbe nell’atto della scrittura una logica che precluderebbe la realizzazione piena di quello che io ho immaginato. In fin dei conti il mio compito è quello di immaginare delle cose e dar loro forma.
In maniera molto concreta, mi immagino il curioso che sentando parlare bene dell’album, ti cerca e si ritrova davanti il primo pezzo di “IRA”…
Su Spotify i dischi di Robert Wyatt hanno molti meno ascolti dei miei e già questo è drammatico. È una logica che rifiuto perché per me è palesemente fallace. Robert Wyatt dovrebbe essere la cosa più ascoltata al mondo, ma non lo è!
Se la musica di “IRA” dovesse diventare la colonna sonora di un film, da quale regista faresti dirigere l’opera? Penso che Bela Tarr (o anche Aleksandr Sokurov) sarebbe perfetto.
Ho sempre fatto grossa fatica a immaginare delle trasposizioni visive del mio lavoro. Ho anche provato a suo tempo a fare un videoclip per “Stormi” e non siamo arrivati a capo. Questo perché nel momento in cui io scrivo i testi parto quasi sempre da sequenze visive: le tratteggio visivamente e poi le trascrivo inserendo quell’immagine nella griglia che gli viene fornita delle melodie. E’ molto difficile immaginare la possibilità che qualcuno possa metter mano e tradurre in immagini quello che faccio, perché nella mia testa quelle immagini ci sono già. Facendo un esercizio di astrazione di questo tipo, “IRA” nella mia testa assomiglia a un’opera filmica colossale ma non in costume. Qualcosa che implica un’ascesa, un’immersione che inizialmente può essere estenuante ma che finisce con l’essere liberatoria. Citando il nome più banale che in questo senso può venire in mente, direi Kubrick
In questi giorni hai annunciato le nuove date per il tour estivo: da quella “famigerata” data al Primavera Sound 2017 la situazione è purtroppo cambiata. Cosa si prova a risuonare live adesso, facendo i conti con tutte le dinamiche in gioco?
Le dinamiche andranno viste pian piano. Bisogna essere tamponati continuamente, stare attentissimi perché un tampone positivo, il contatto con un positivo, implica una quarantena, quindi la sospensione di settimane di concerti, etc etc.. E’ una cosa sicuramente più delicata e complessa rispetto all’idea di tour che noi abbiamo sempre avuto e che abbiamo sempre fatto. Detto ciò, accantonato l’aspetto logistico che impareremo, già il fatto di ritrovarsi in sala prove e suonare, ritrovarsi a cablare gli strumenti, ad aprire i case e capire come sistemarli, a fare tutte queste da “umarèll” (come si dice a Bologna, cioè da attempato con la sua cassetta degli attrezzi con il velcro e tutto il resto), suonare e capire quale macchina nuova può servire: tutte queste cose sono entusiasmanti, bellissime. Già il solo dover fare delle prove mi ha dato delle scariche di adrenalina fortissima che non provavo da un anno abbondante, perché poi tutto questo casino è successo quando eravamo più o meno a 2/3 con la preparazione del tour di esecuzione integrale di “IRA”. E’ stata un po’ una doccia fredda, ci siamo dovuti fermare all’improvviso. Per questa ragione non siamo andati in tour l’estate scorsa e per questa ragione si è rivelato complessissimo pensare di andare in tour questa estate con la band al completo, perché purtroppo la pandemia ha interrotto le nostre prove quando ancora non erano complete e ci siamo ritrovati a non avere un set completo, quindi impossibilitati a decidere dall’oggi al domani “Ci vediamo per due, tre giorni, proviamo due brani, li suoniamo in streaming?”. E’ una cosa che non possiamo fare perché il materiale è molto complesso, i musicisti sono tanti e le prove non le abbiamo mai terminate.
Quando ci rivedremo, dovremo un po’ ripartire da zero, ricapire un po’ tutto, anche perché questi brani da suonare sono veramente sfiancanti, per ogni singolo musicista. Ci sono un sacco di cose da fare contemporaneamente e bisogna suonare quasi come delle batterie elettroniche a tratti, ci vuole un grande lavoro mnemonico, di concentrazione e allo stesso tempo anche di pronuncia sugli strumenti.
Difficile scinderti dalla Sardegna. C’è qualche artista emergente proveniente dalla tua terra da segnalarci?
Alek Hidell che ha appena pubblicato “Ravot”, il suo primo disco. Credo ne abbiate scritto anche voi di OndaRock: sicuramente lui. Un musicista da tener d’occhio, anomalo nel panorama italiano, che si muove su spazi di confine tra l’elettronica e l’hip hop, il prog a tratti, credo che lui sia una delle cose più interessanti in circolazione in questo momento. È sardo, è un mio amico, ma non lo dico assolutamente per questo, ho tanti amici che suonano ma non li segnalo tutti. Lui invece, secondo me, è davvero interessante.
Dopo l’apprezzato split con i Verdena, hai in programma altre collaborazioni?
In questo momento ho all’orizzonte – molto ravvicinato – dei lavori per il cinema. Ancora delle colonne sonore. Io e Paolo Angeli abbiamo un disco pronto, già mixato, realizzato utilizzando del materiale registrato nella tournée teatrale che abbiamo fatto nel 2018. Presumibilmente uscirà tra non molto. Non ho altre collaborazioni in atto, in questo momento.
Sei nel pieno di una lunga “session” di interviste per il lancio dell’album: c’è ancora qualcosa che non sei riuscito a dire e che reputi sia importante?
Per fortuna, come ti dicevo all’inizio, mi sembra che “IRA” abbia generato un livello d’attenzione sul disco stesso e sul mio modo di lavorare che ogni volta mi gratifica. Ci sono tanti dischi per i quali viene difficile formulare delle domande che vanno al di la di “In questo disco parli di te?” o “Hai suonato la chitarra in questa canzone?”. Mi sembra che questo disco – era già capitato in parte per “DIE” – stia generando un’attenzione a un livello molto interessante.
Un’altra cosa che mi sembra interessante è che forse si sta mettendo anche da parte un fraintendimento al quale sono sempre stato un po’ condannato fino a poco tempo fa, nel senso che per ragioni anagrafiche o geografiche sono sempre stato inserito in una scena di cantautori indie che in realtà non mi appartiene e alla quale non appartengo. Questa cosa nonostante “Tanca”, “Buio”, “Mandria”: forse solo per “Stormi” o “Il corpo del reato” ne “La Macarena su Roma”, anche se poi in realtà il disco nella sua complessità già si discosta nettamente da quel mondo. Non dico che abbia sofferto di questa cosa, perché in fin dei conti non me ne frega nulla, però mi sembra che in questo momento la percezione che si ha di quello che faccio e di quello che sono come musicista sia finalmente a 360 gradi.
E’ passata tanto l’idea che io sia uno che fa un disco ogni cinque anni e per il resto non fa nulla. In realtà tra “DIE” e “IRA” ho fatto quattro colonne sonore, ho sonorizzato un’opera di Edoardo Tresoldi (una composizione di quaranta minuti che è un disco a tutti gli effetti e che prima o poi registrerò e pubblicherò), ho collaborato con Paolo Angeli, con i Verdena, ho prodotto diversi dischi, sono andato in tour con Dino Fumaretto, ho sonorizzato dei film. Ho fatto una valanga di cose, scritto una valanga di musica e onestamente mi viene difficile qualche collega italiano altrettanto produttivo. E’ buffo il fatto che per molti io finissi in quel macro-calderone che è il cantautorato indie degli anni Zero, chiamiamolo così. Forse “Stormi” ha contribuito a questo fraintendimento, è diventata una hit, ma anche su questo secondo me bisogna essere molto consapevoli delle cose. Oggi le hit nascono e fioriscono sulle piattaforme di streaming, le quali hanno un algoritmo che fa sì che un brano “playlistato” diverse volte venga automaticamente “ri-playlistato”, quindi è un successo che si autogenera e la qualità dell’ascolto è indicativa, nel senso che i numeri fatti da un brano molto spesso sono generati dalla casualità dei consigli che la piattaforma stessa dà, quindi c’è poco da lodarsi. Quando “Stormi” ha vinto il disco d’oro, a me non ha fatto né caldo né freddo, non perché voglia fare il duro, ma poiché sono consapevole della cosa.
Ritengo molto più significativo vedere che per quanto la mia esposizione mediatica sia pari a zero e i grossi network e le televisioni non parlino minimamente di me e non si interessino del mio lavoro, ai miei concerti le persone vengono. Quando lanciammo il tour d’esecuzione integrale di “IRA” in anteprima, e lo abbiamo fatto in totale indipendenza, senza investire un euro né in promozioni né in sponsorizzazioni, era un bel quesito. Si trattava di spazi da 1.000, 1.200 posti all’incirca, anche di più a volte, e mi chiedevo come potesse andare questa cosa. Chiamare a raccolta il pubblico oggi, le persone, per andare a sentire qualcosa che non hanno mai ascoltato quando in realtà tutti puntano al sing along, sia i musicisti che il pubblico stesso. Si va ai concerti per filmare il cantante quando canta la canzone che tu conosci e allo stesso tempo però cantarla a un volume di voce più alta del cantante stesso: l’oggetto di quel concerto sei tu che canti la canzone che conosci. È un perenne selfie. Chiamare a raccolta le persone per andare ad ascoltare qualcosa che non hanno mai sentito è qualcosa di rischioso e di strambo. e quando abbiamo visto che le date andavano sold-out in pochissimi giorni. è stato molto bello, vuol dire che le persone ti danno fiducia e danno fiducia al percorso che stai facendo, che prescinde dai singoli, prescinde dai numeri su Spotify.
(15/05/2021)
(Foto di copertina di Silvia Cesari)
Antonio Santini for SANREMO.FM