I concerti di lunedì sera sono sfiancanti e l’elevata partecipazione non è mai particolarmente scontata, fatta eccezione per gli artisti più attesi. Nonostante ciò, il Locomotiv Club di Bologna ha centrato di nuovo in pieno l’obiettivo sold out con i Protomartyr, ormai nume tutelare del cosiddetto nuovo post-punk dalle molteplici sfaccettature, da ben prima che lo stesso tornasse dichiaratamente in auge con nuove leve in costante aumento e di maggiore hype; ritornati sulle scene a giugno con la loro sesta opera “Formal Growth In The Desert”, dove la formazione americana aveva apportato qualche novità in materia di sound.
Ad aprire ottimamente le danze ci hanno pensato i Korobu, trio noto nel panorama bolognese, composto da Gianlorenzo De Sanctis (ex-Buzz Aldrin, Hvsband), Alessandro Rinaldi e Christian Battiferro (entrambi provenienti dalle fila dei My Own Parasite), e reduce dalla pubblicazione di “Fading | Building”, uscito lo scorso anno per Locomotiv Records. La proposta live include poco più di una manciata di pezzi, tra inediti ed estratti dal disco, le cui influenze viaggiano tra suggestioni art-rock à-la The Smile, new wave, accenti post-rock, e krautrock dal passo sostenuto. La sezione ritmica di “Cake” funge da perfetta anticamera per la frenetica “Cavalcade”, rimanendo in primo piano nell’ipnotica e stregata “Roads”, in continuità con “Weird Voices”. La conclusione è lasciata ai sussulti sintetici della valida “Dropped Pleasure”, più elettrificata rispetto alla sua versione in studio, e all’introduzione folk-rock di “Park”, dove De Sanctis lascia il basso per imbracciare una chitarra acustica.
Precisa come da previsione, la band di Detroit capitanata da Joe Casey, e completata dal chitarrista Greg Ahee, il batterista Alex Leonard e il bassista Scott Davidson, oltre ad un quinto turnista in sostituzione a Kelley Deal (The Breeders), sale sul palco attaccando con i nuovi pezzi di “Formal Growth In The Desert”, a cui viene garantito ampio spazio in scaletta nella prima metà dello show. Casey, munito di un drink gigantesco non ben identificato, al quale si affiancheranno svariate lattine di birra nel corso dell’esibizione, lancia i primi ruggiti sull’introspettiva “Make Way”, a cui seguono gli strattoni di batteria e le stilettate di basso e chitarra di “3800 Tigers”, entrando nel vivo della performance. Fanno marcia indietro a “Relatives In Descent” le vertigini scure e i giri di batteria di “Windsor Hum”, per poi tornare al presente con i guitar-riff sottili di “Elimination Dances”, il drumming e le esplosioni di rimando garage-punk di “Fun In Hi Skool”, a cui si accoda l’indie-rock più scanzonato tutto da pogare di “For Tomorrow”.
L’andatura decisa scandita dalla batteria macinata nell’inconfondibile “A Private Understanding” cede il passo alle chitarre armoniche di “Maidenhead”, aumentando il passo con la bassline sferzante di “Scum, Rise!”, fino all’ultima doppietta estratta dal sesto album, “The Author” e la caustica “Polacrilex Kid”. Si accendono nuovi poghi e balli sugli intrecci di basso e chitarre di “My Children”, ulteriormente alimentati dalla dinamica “I Forgive You” e i riff taglienti di “Feral Cats”. Il set principale si chiude con l’atteso assolo di Ahee su “Pontiac 87” e con il microfono addentato ferocemente dal frontman sulla torva “Processed By The Boys”, unica traccia ripescata da “Ultimate Success Today”. Il ritorno in scena per il bis fuori scaletta vede susseguirsi la tripletta “Jumbo’s”, la breve e travolgente “The Devil In His Youth”, e i barlumi luminosi dei synth riflessivi e i mantra di “Why Does It Shake?”. Forse un po’ sbrigativi, ma abrasivi quanto basta per rimanere impressi indelebilmente nella memoria e nelle viscere, i Protomartyr si confermano una delle formazioni più solide del post-punk moderno (nonché uno dei punti di partenza dello stesso), per tecnica ed espressività sul palco, come nelle liriche intense, nel pieno della maturità.
Antonio Santini for SANREMO.FM