Il Mago del Gelato, band milanese all’esordio con Chi è Nicola Felpieri? si muove agilmente tra jazz e afrobeat, portando sul palco sette elementi e un mood da Blue Note in spiaggia a luglio. I Calibro 35 non hanno bisogno di presentazioni: con la loro musica cinematografica hanno scritto la colonna sonora di una Milano sospesa tra un poliziesco anni ’70 e lo sguardo costantemente rivolto al futuro.
Non hanno tanti anni di differenza, eppure sembrano passate decine di epoche musicali tra le due band. Mentre la musica italiana dal 2010 in poi si è concentrata tutta su urban, trap, indie e pop, alcune piccole nicchie di musicisti hanno portato avanti quella rarità che è la musica strumentale. Così abbiamo deciso di metterli insieme per una chiacchierata a briglie sciolte, parlando di quanto i luoghi in cui viviamo influenzino la nostra vita, di come si scopre la musica oggi e dell’importanza di ritagliarsi il tempo per stare insieme di persona.
Massimo Martellotta (Calibro 35): Ciao ragazzi, come va? Siete anche voi nella vostra “caverna”? È in via Padova, a Milano?
Giovanni Doneda (Il Mago del Gelato): In realtà ci siamo trasferiti di recente in un altro posto, che è sempre nei dintorni di via Padova, però siamo in via Meucci adesso, verso Ponte Nuovo. L’altro posto dove eravamo sempre si chiama La Sabbia, che esiste ancora e ne facciamo parte, ma come Il Mago del Gelato ci siamo trovati proprio un’altra sistemazione.
Massimo Martellotta: Quanto avete cambiato?
Giovanni Doneda: A ottobre, in un momento in cui eravamo un po’ sconfortati perché ci sembrava impossibile trovare uno spazio a Milano che rispondesse alle nostre esigenze. È apparso proprio nel momento del bisogno. Ci si può suonare 24 ore, che per noi era il principale prerequisito.
Massimo Martellotta: Ed è uno stanzone unico dove avete tutta la roba?
Giovanni Doneda: No, abbiamo anche una piccola sala prove e una regia.
Tommaso Colliva (Calibro 35): Io trovo interessante quanto il luogo dove produci la musica influenzi la musica stessa. Se penso ai nostri dischi, il primo che abbiamo fatto è stato realizzato in uno studio dove 15 anni dopo sono tornato a stare. Però poi abbiamo fatto un disco a New York e lo senti che l’abbiamo fatto a lì. O il disco che abbiamo fatto a Londra, poteva esistere solo in quel momento. Sono cose a cui non pensi quando inizi a suonare. Pensi solo a comprare il synth, la chitarra o il mixer che vuoi. E poi inizi a dire «ah no, ma aspetta, c’è una stanza attorno a questa cosa e come ci vivo ha un’influenza sulla musica». A voi è capitato di sperimentare come posti diversi influiscano su come fate musica?
Giovanni Doneda: L’abbiamo fatto con questo disco che è uscito. Siamo andati a registrare in Puglia, al Sudestudio.
Tommaso Colliva: Ah, figo. Come siete trovati lì? Il posto è fighissimo, lo conosco bene.
Giovanni Doneda: Benissimo, perché c’è proprio un clima di famiglia.
Tommaso Colliva: Noi abbiamo fatto lì Sei acqua con Venerus. Venerus ha aperto il nostro concerto al Locus Festival e il giorno dopo siamo andati a fare il pezzo. In un giorno era chiuso perché abbiamo fatto quella classica cosa molto metropolitana dell’avere poco tempo e riuscire a fare tutto in un giorno. Quindi io sono abbastanza bravo a essere uno che si chiude a testuggine per fare un disco. Abbiamo finito il pezzo e poi, proprio come nella scena di un film, siamo usciti dalla porta, c’era ’sto tramonto pazzesco e ci siamo messi a giocare a basket lì fuori. Com’è andata a voi?
Giovanni Doneda: A noi è andata benissimo, soprattutto per la qualità della vita in quei giorni e la possibilità di ritagliarsi un momento completamente dedicato a quello che stavamo facendo. Per noi la caratteristica più interessante, al di là del fatto che è uno studio incredibile, era proprio quella sensazione di “residenza” che si è venuta a creare, portando lì tutta la band, dormendo nello studio e stando lì un’intera settimana. E devo dire che secondo me ha influenzato tanto il risultato di questo disco, così come si sente l’influenza forte del nostro vecchio studio in via Padova. In questo disco si riescono a sentire entrambe le identità.
Alessandro Paolone (Il Mago del Gelato): Io ho avuto la possibilità di mettere le mani su un organo Hammond e quando ti trovi con della strumentazione che non hai mai visto e che ha un suono decisamente caratteristico, ti interroghi un po’ su come far uscire qualcosa di tuo, di diverso, di particolare. È un approccio che secondo me al Sudestudio c’è stato su tante cose. Quando ti trovi faccia a faccia con l’organo Hammond e un Leslie, insomma, è una sfida, ti trovi a confronto con animali nuovi che in qualche modo devi domare. Animali che hanno fatto la storia. Dal punto di vista acustico, quello studio era veramente l’opposto di come eravamo abituati. Il nostro vecchio studio era una stanza sotto terra, senza finestre, piccolina, strapiena di roba, asciuttissima dal punto di vista acustico, proprio tappata.
Giovanni Doneda: Che è una cosa che può avere dei pro in determinate circostanze, ma ci ha lasciati completamente spiazzati quando abbiamo risentito la stessa musica suonata in un salone con un riverbero infinito. Ci ha fatto rivalutare tante cose e ha cambiato sicuramente in corsa le nostre idee sui brani.
Massimo Martellotta: Io e Tommaso ci siamo conosciuti alle Officine Meccaniche, che è lo studio di Mauro Pagani a Milano, lo studio anni ’60 per eccellenza, una specie di Abbey Road italiano, possiamo definirlo il tempio della musica. Noi a vent’anni sicuramente siamo stati fortunati, abbiamo fatto un percorso che ci ha portati lì dentro, però magari vent’anni dopo è più raro stare insieme 100%. La capoccia dei musicisti lavora con le idee, con le immagini, con la creatività. Noi lo vediamo con l’immaginazione, se non la nutriamo è difficile che esca qualcosa di veramente sentito. Può uscire una cosa fatta molto bene, ma sentita è un’altra cosa, soprattutto ora con tutto il discorso dell’intelligenza artificiale. Voi cosa ne pensate dell’AI, a proposito?
Alessandro Paolone: C’è una creatività che, secondo me, sta anche semplicemente dietro il gesto manuale che non è sempre riproducibile attraverso l’emulazione. Per quanto riguarda intelligenza artificiale, io non la utilizzo quasi per niente. Credo che l’umanità stia nell’errore, nella possibilità di fare una cosa che magari per qualcuno non è giusta o per le regole del momento è sbagliata, e poi invece si rivela un’intuizione. Questa cosa secondo me nessun computer la può fare, a meno che inizi a pensare al contrario.
Tommaso: Da quando si è passati al computer, si possono sempre rivedere le proprie scelte. C’è sempre un cazzo di undo che puoi fare, che sulla carta dovrebbe darti un casino di sicurezza, in realtà è l’insicurezza protratta. L’altro tema che avete toccato secondo me è la sincronicità: essere tutti nella stessa stanza, nello stesso momento, ascoltarsi. La collaborazione oggi è: io faccio il mio file a casa mia, te lo mando e cazzi tuoi. Anche noi come Calibro lavoriamo spesso separati e io unisco tutti i file. Però poi quando ci vediamo qua, è successo qualche settimana fa per le musiche di un documentario in cui il regista ci ha chiesto di filmarci, è stato un tale sospiro di sollievo, una tale bellezza.
Ferruccio Perrone (Il Mago del Gelato): La penso come te, forse è un po’ il punto di congiunzione tra le nostre band, il piacere di suonare con gli altri, lavorare alla musica insieme e non come singoli. La nostra musica, se mancasse uno dei componenti del quartetto, non suonerebbe uguale. Anche uscire dallo spazio di comfort a Milano, andare in Puglia… La musica è una somma di cose che va oltre gli strumenti. Se avessimo registrato il disco fra un anno, sono convinto che sarebbe uscito diverso, perché di mezzo ci sarebbe stato un altro anno di esperienze, di condivisione, di vita. Quello che ci differenzia da ChatGPT, dalle macchine, è proprio che siamo fortemente influenzati dal rapporto umano.
Massimo Martellotta: Come nascono i pezzi vostri? Insieme?
Pietro Gregori (Il Mago del Gelato): I pezzi nascono insieme, jammando, entriamo in sala senza neanche un’idea specifica di quello che faremo, troviamo un groove iniziale, magari basso e batteria, magari un riff di Ferruccio, e poi costruiamo piano piano. Tutto questo disco è nato così, ci siamo chiusi nel nostro vecchio studio, La Sabbia, per due o tre mesi e abbiamo accumulato un sacco di demo.
Massimo Martellotta: Vi ricordate il primo pezzo che avete fatto? Quello che vi ha fatto dire «questa non è una demo, lo possiamo pubblicare»?
Giovanni Doneda: Zenzero. È stato proprio il primo brano a cui abbiamo lavorato e anche il primo brano che abbiamo pubblicato. Prima di intraprendere il progetto del Mago del Gelato, già ci conoscevamo e suonavamo insieme. Una volta è uscito fuori il tema di Zenzero ed è scattata la scintilla, volevamo creare un progetto basato sull’afrobeat.
Tommaso Colliva: Quando facemmo i primi tre concerti dei Calibro, non sapevamo bene che cazzo stessimo facendo. Nasciamo come progetto in studio, non come band. Anche perché non ci saremmo trovati il batterista a Roma, altrimenti. Poi quando ci han chiesto di fare dei concerti, abbiamo detto: ok, facciamoli. Nella nostra testa eravamo un progetto jazz, non rock, quindi i primi tre concerti sono stati fatti da seduti sul palco.
Massimo Martellotta: Seduti con un piglio che non ci apparteneva per niente, a fare i jazzisti. Proprio da impostori. E ci sono dei filmati di questi concerti, è molto tenero riguardarli… Io mi sono segnato delle domande che quando fanno a noi sono contento. Il concerto o il disco che vi ha cambiato la vita? Il mio: gli Art Ensemble of Chicago a un festival pazzesco di jazz ad Aquino, che è un buco nella provincia della Ciociaria. Fecero un groove di basso per un quarto d’ora di orologio che ipnotizzò tutti quanti, le vecchie, le signore, le mamme, tennero sto groove che ha stregato tutti e io ho detto «basta, voglio fare questa cosa».
Pietro Gregori: Per me sicuramente è stato Billy Cobham, il batterista, mi ha portato mio padre quando avevo 7 anni, forse il primo concerto che ho visto nella mia vita. Mi ricordo che suonava al parco di Palestro gratis, tipo alle 11 di mattina, aveva questo set con due casse, mille tom-tom, mille timpani, mille piatti, faceva questo suono super pulito, ma allo stesso tempo proprio d’impatto. Quando avevo 7 o 8 anni suonavo sopra i suoi dischi con la mia batteria giocattolo.
Giovanni Doneda: Adesso sembra che ognuno ascolti solo il suo strumento così sembriamo tutti dei nerd. Per me è stato un concerto di Victor Wooten al Blue Note di Milano per la qualità della musica che era incredibile, ha groovato a modo suo e cambiato il modo di usare il metronomo.
Alessandro Paolone: No, io non parlo del mio strumento. C’è stato un periodo, penso fosse intorno al 2007-2008, in cui a Milano d’estate all’Arena del Parco Sempione facevano dei concerti. C’erano dei nomi veramente interessanti, mi ricordo una stagione con i Buena Vista Social Club e Lou Reed. È stato un concerto che mi ha cambiato l’esistenza. Io e i miei amici scalcavamo le impalcature all’Arena, correvamo come i matti nel prato per cercare di arrivare al concerto e non farci acchiappare, e così ho visto Lou Reed che faceva Sunday Morning dal vivo e mi ha cambiato l’esistenza.
Ferruccio Perrone: Per me David Gilmour all’Arena di Verona. Sono cresciuto ascoltando i Pink Floyd con mio padre e mio fratello.
Massimo Martellotta: Madonna, ’sti papà, è pazzesco, hanno creato dei mostri.
Ferruccio Perrone: Sì, esatto (ride). Per me sentire come suonava quella chitarra è stato veramente assurdo perché non mi rendevo conto di cosa stesse succedendo. So solo che a un certo punto è finito il concerto e ne volevo ancora.
Tommaso Colliva: Hai suonato una chitarra e hai detto «ops, come mai non suona come quella lì?». E poi continui a cercare di far suonare la chitarra così e dici «vabbè, ho capito, devo trovare un altro modo».
Massimo Martellotta: E il tuo concerto, Tommy?
Tommaso Colliva: Ci stavo pensando. Ovviamente uno lancia queste domande e poi sono difficilissime, tipo la psicoterapia. Il primo concerto sono stati i Public Enemy, avevo 14 anni e sono venuto a Milano apposta, mi sentivo tutti gli sguardi di quelli più grandi addosso. Poi ho visto un concerto di Billy Cobham, Ron Carter e Kenny Barron a La Spezia, avrò avuto 18 anni, e quello fu il primo concerto dove capii che il jazz esisteva anche fuori dai dischi. Sono cresciuto ascoltando i dischi jazz per cercare i campioni, ma non ero così interessato alla musicalità, e invece quella fu proprio un’esperienza pazzesca. Tra l’altro i vostri racconti sui concerti mi fanno venire in mente che voi siete molto più sereni rispetto ad alcuni generi con cui noi Calibro non abbiamo ancora fatto pace, come il fusion e il prog. Veniamo da una generazione che detesta quelle cose lì.
Massimo Martellotta: Ci sono rimasti malissimo: «Ma come, noi facciamo jazz ricercato» (ride).

Foto: Michele Rossetti e Mattia Chicco/Vasta Film
Rolling Stone: Agganciandomi al tema dei generi, come avvengono le vostre scoperte musicali? Passano tutte da Spotify o avete altri modi per fare digging? Vi fidate dei gusti degli amici, andate ai concerti senza conoscere gli artisti?
Giovanni Doneda: Avendo la fortuna di fare tour, ci troviamo in tante situazioni di musica dal vivo, festival con tantissimi gruppi e questo ci ha permesso di entrare in contatto con un sacco di progetti che non saremmo andati a cercarci. Io seguo in particolare questo booking con cui abbiamo anche collaborato in passato che si chiama Chullu Agency, hanno una forte passione per musica etnica di vario genere, un sacco di afro declinata in tutti i modi e questo sicuramente ci ha arricchito molto. Non dipendo da Spotify nel ricevere lo stimolo di nuova musica, ma spesso ti fa scoprire tante cose belle. Spotify non è uno strumento educativo per quanto riguarda l’attitudine all’ascolto, ma offre delle possibilità e sarebbe stupido non sfruttarle. Ho la fortuna di essere circondato da tante persone che scoprono cose nuove. Tipo Pietro è un digger assurdo.
Alessandro Paolone: Nel mio caso è un po’ diverso. Io per esempio ho vissuto l’era di YouTube senza pubblicità, non c’era nulla, era un servizio di sharing video e ho scoperto tantissima musica attraverso l’algoritmo di YouTube. Guardavo, che so, canali specializzati sul funk giapponese o il progressive rock inglese. E poi a me piace ascoltare i dischi interi, dall’inizio alla fine, come se stessi leggendo un libro, mi devo calare nella situazione. E poi in macchina, per me è il luogo dove ascoltiamo più musica in assoluto. Quando qualcuno prende in mano il telefono e dice «adesso vi faccio sentire qualcosa» è il momento che preferisco. Questa estate abbiamo ascoltato Cosmo in tutte le salse, ma pure il liscio, in furgone vale tutto.
Tommaso Colliva: Io l’altro giorno, per esempio, leggevo un articolo che citava Fat Albert Rotunda di Herbie Hancock e sono andato a riascoltarlo su Spotify. Poi ho sentito la necessità fisica di andare su Discogs e comprarne una copia in vinile che in tre giorni era a casa mia. Me la metto mentre cucino ed è tutta un’altra esperienza. A me piace ascoltare la musica nelle cuffiette, quando vado in giro a farmi una passeggiata, ma anche ascoltarla qua in studio dalle casse come se fossi un chirurgo e ascoltarla a casa su vinile, però sono proprio psicologicamente tre ascolti diversi.
Rolling Stone: E nei listening bar, che ora vanno così di moda a Milano, andate a scoprire nuova musica?
Massimo: Io non sapevo neanche che esistessero, questo rivela tutta la mia vocazione trendy, è evidente. Però l’idea la trovo molto carina.
Rolling Stone: Io trovo il format bellissimo, ma la musica è un elemento di sottofondo, per adesso. Prevale ancora tanto l’aspetto della socialità che distoglie l’attenzione dall’ascolto.
Tommaso Colliva: Hai super ragione perché io ho vissuto a Londra per un bel po’ e ho visto nascere i primi listening bar. Al Brilliant Corners, per esempio, uno dei listening bar storici, danno appuntamento alle 6 di sera per ascoltare un disco dall’inizio alla fine. A Londra li ho visti vivere molto di più dal punto di vista musicale e di scoperta. Mentre qua anche posti che mi piacciono, come Solchi in Isola, hanno un’ottima curatela dei dj che mettono i dischi, ma finisce lì. Forse ha a che fare col fatto che l’Italia se l’è menata per secoli di essere il king della musica perché abbiamo l’opera lirica ed è rimasta un po’ indietro sulle cose che stavano succedendo.
Rolling Stone: E dal punto di vista della musica live, secondo voi Milano è ancora una città che alimenta la scena? I luoghi medio-piccoli, come l’Arci Bellezza o il Biko che fanno un lavoro di grandissima qualità, sono dei veri e propri luoghi di resistenza culturale.
Massimo Martellotta: Io che vengo da un posto dove non c’era niente, secondo me c’è tantissimo. Anche eventi più istituzionali come Piano City, Jazz Mi…
Tommaso Colliva: Io su questo veramente mi sento molto fiducioso perché le realtà sincere funzionano bene. Ne mancano palesemente alcune e secondo me ci sono dei vuoti che si colmeranno, però in generale sono molto positivo su questa cosa, soprattutto nei confronti delle persone, più che della città in sé. Ci sono tanti musicisti in gamba che si stanno mettendo in gioco sia con progetti personali, sia aprendo studi. Abbiamo tutto il background che sta dietro alla la forza culturale e musicale di una città, secondo me.
Alessandro Paolone: Ci sono tanti piccoli studi, tante piccole realtà, piccole situazioni che in qualche modo stanno iniziando a interagire e questo aumenta le possibilità di dire qualcosa da un punto di vista culturale su Milano. Mancano forse dei posti, però le persone hanno voglia di suonare, di beccarsi e questo alla fine è la cosa che fa più bene, è linfa vitale per la musica live.
Massimo Martellotta: C’è un locale piccolissimo a Milano che si chiama Bachelite, sicuramente ci sarete capitati, però ha, come direbbero gli adulti, una bella linea editoriale. Fa il cantautore nuovo, il blues per quelli un po’ più grandi, è un posto micro, ma vitale. Oppure c’è La Corte dei Miracoli. A me stupisce il pubblico sempre, questi ragazzini che magari sono pochi, ma infoiati. Anche il Biko, non è un locale enorme da miliardi di persone, ma ha un’identità forte e come vai vai, caschi bene.
Tommaso Colliva: Se ci fossero tante Santeria, non so quanto poi riuscirebbero a stare in piedi. È vero che ce ne sono stati, è vero che c’è un ricambio anche generazionale dei posti, noi siamo una generazione arrivata a Milano quando c’era la Casa 139. Dall’altro lato a me viene da pensare che tanti di questi posti di cui stiamo parlando sono andati avanti finché quelli che li gestivano ne avevano voglia e questo è un po’ un peccato perché andrebbero supportati non solo da noi come fruitori. È un gran peccato quando senti le storie di chi fa fatica a tenerli aperti perché la burocrazia eccessiva non ti permette di strutturare una crescita. Un esempio molto positivo di intervento culturale sul territorio secondo me è il Locus, che organizzava concerti per 500 persone, 1000 persone, e ora è diventato il festival più grosso che c’è in Puglia. A Milano c’è anche un tema immobiliare, sicuramente.
Alessandro Paolone: Diciamo che negli ultimi anni non è che ci sia stata una politica molto favorevole all’eventistica musicale a Milano. Ci sono settimane internazionali di qualunque cosa, ma non è che si sia data molta importanza alla musica in piccolo.
Massimo Martellotta: Però negli eventi che citavo prima, mischiano veramente il nome grandissimo al progetto iper di nicchia appena uscito dalle scuole civiche. E queste sono cose che è bello notare secondo me. Vedo questi semini comunque, da cose più strutturate al piccolo club che tiene botta con 60 paganti, e dentro ci vedo del fermento, ci trovi dal quindicenne al sessantacinquenne. Per me è un segnale positivo. Sicuramente all’estero ci sono situazioni più strutturate, ma a volte credo che abbiamo semplicemente il mito dello straniero.
Tommaso Colliva: La legislazione italiana non aiuta e il fatto che tanti locali dove si suona siano Arci o circoli culturali è dovuto in grande parte alla burocrazia e alle tasse. Lo Stato Italiano dovrebbe favorire la possibilità di essere sostenibili.
Pietro Gregori: Io ho una domanda per voi: qual è il consiglio dei Calibro 35 a una band come Il Mago del Gelato?
Massimo Martellotta: Rigiro io la domanda a te, prima. Che sogno avete? Dove volete andare?
Giovanni Doneda: Il nostro sogno sarebbe quello di riuscire a concentrarci veramente solo sulla musica e girare il più possibile, suonando.
Massimo Martellotta: Se questo è il sogno, allora il consiglio che vi do è quello di cercare di incrociare il più possibile i calendari per suonare insieme. Io e Tommy ci siamo un po’ scelti come una squadra di calcio e oggi siamo una famiglia, ci sentiamo tutti i giorni, però siamo anche cinque entità differenti con una propria vita professionale e un aspetto dove potremmo fare molto di più è proprio la disponibilità di giorni passati assieme a fare le cose.
Tommaso Colliva: Il consiglio che vi do io è di essere allineati con quello che si vuole, tra quello che volete voi e quello che vogliono le persone che sono attorno a voi. Quando si hanno dei rapporti win-win con chi vi fa da manager, chi vi fa i concerti, chi vi fa da etichetta è una figata perché ognuno può fare bene il suo lavoro e contribuire al progetto che si sta sviluppando. È molto bello quando succede, ci si sente molto bene.
Massimo Martellotta: Anche nel rapporto con le etichette, siete voi che dovete avere le idee chiare. Mini o major che siano, le volontà è vostra e basta perché fate una roba talmente di nicchia che va protetta. A noi ha aiutato molto avere Tommy perché non suona propriamente, ha il ruolo di produttore e quindi ha una visione più distaccata delle cose. Avere una figura di raccordo può essere utile, magari è un manager, magari è un amico illuminato, magari è qualcuno che non suona prettamente, ma vede il progetto da fuori.
Alessandro Paolone: Io ho sentito due parole che mi hanno particolarmente colpito. Innanzitutto l’essere allineati: è una cosa che per noi vale da sempre vale e ci fa percepire una grande forza, un grande insieme. E poi parlavi della sinergia con il team: anche in questo mi riconosco perché avere un team ci sta dando una forza incredibile e ci permette di dividerci i compiti. Questo ci fa mantenere un equilibrio tra gli alti e i bassi. Comunque grazie, perché ci siamo riconosciuti in tante cose.